ALLA RICERCA DEL SENSO DELLA VITA.

ALLA RICERCA DEL SENSO DELLA VITA.

Biblioteca Chiesa Rossa

(via San Domenico Savio 3 – piazza Abbiagrasso, Milano)

Giovedì 11 gennaio 2024, ore 18.00

ALLA RICERCA DEL SENSO DELLA VITA.

Presentazione del romanzo di Alberto Liguoro,

Immaginazione, Lulu Ed., 2023

Ne discutono con l’autore Bruno Contardi e Andrea Cattania.

Modera Giuseppe Deiana

Per Aurora – volume quinto – POESIA SPORCA

Per Aurora – volume quinto – POESIA SPORCA

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Per Aurora – volume quinto – POESIA SPORCA

Poesia sporca

La radio avanza sulle curve magnetiche.
Nel suo frantoio
spirano avanzi
innominabili
di belle speranze.
Nessun arpeggio interrompe la macina.
Stritolata
da robuste ganasce
sporca poesia mi imbratta.

Per Aurora – volume quinto – Così fu PARTE 2 CAPITOLO SECONDO

Dedica

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così fu

PARTE 1

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SETTIMO

CAPITOLO OTTAVO

CAPITOLO NONO

CAPITOLO DECIMO

CAPITOLO UNDICESIMO

CAPITOLO DODICESIMO

CAPITOLO TREDICESIMO

PARTE 2

CAPITOLO 1

CAPITOLO 2

Poesia sporca

Poesia sporca

Per Aurora – volume quinto – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

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Per Aurora – volume quinto – Vetrina LULU

Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

seconda edizione

Version 5 | ID r99qmg

ISBN 9781471068423

Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Versione 4 |  ID r99qmg
Creato: 31 ago 2022
Modificato: 31 ago 2022
Libro, 100 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm)
Standard Bianco e nero, 60# Bianco
Libro a copertina morbida
Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00

Titolo Per Aurora volume quinto
Sottotitolo Alla ricerca di belle storie d’amore
Collaboratori Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Marchio editoriale Lulu.com
Edizione Nuova edizione
Seconda edizione
Licenza Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
Titolare del copyright Bruno Mancini
Anno del copyright 2022

E allora la bacia con violenza. Sulla bocca trattenendole la testa – come una bambola di pezza -, sul collo comprimendole le guance – come il morso per una cavalla-, sul seno acerbo – strappandole stoffe e bottoni.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo”.
E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo, Non farlo”.

Per Aurora volume quinto

seconda edizione

Racconti

La menopausa di mia sorella

Così fu

Info: Bruno Mancini

Cell. 3914830355 tutti i giorni dalle 14 alle 23
[email protected]

 

Per Aurora – volume quinto – Così fu PARTE 2 CAPITOLO SECONDO

Per Aurora – volume quinto – Così fu PARTE 2 CAPITOLO SECONDO

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Per Aurora – volume quinto – Così fu PARTE 2 CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO 2

Ora non mi chiedo quanto può valere determinare la matrice della mia perdita di coscienza, né tanto meno mi pare a questo punto determinante dare la corretta interpretazione scientifica della mia assenza da me stesso, in quanto sarà certamente più utile, affinché io passa prendere le decisioni opportune, che sforzi la mia memoria, nella faticosa opera necessaria ad inanellate le scene ed i dialoghi secondo il loro corretto sviluppo.
Forse, scrivendo, ometterò qualche particolare connesso a questa ricostruzione delle vicende relative a quel giorno della mia vita che mi sono apparse, come ho già detto, non so bene se in sonno o nel corso di un momento della mia morte.
Ebbene, accanto al cadavere scheletrito, un filaccio di corda, quantunque annodato, era stato tranciato utilizzando la punta formata da una mano della sagoma umana rappresentata sul crocefisso.
Poco distante, un foglio di giornale ingiallito, scritto in inglese, presentava la foto di un mercenario ricercato per aver ucciso un suo superiore di grado che l’aveva colto mentre smerciava sostanze stupefacenti.
Una coperta in parte arrotolata, con evidenti segni di essere stata, tempo addietro, intrisa di un liquido scuro, inondava il maleodorante olezzo dal quale ero stato attratto come da una calamita, stordito come da un etere, reso ciondolante come un ubriaco, il capo chino come un cane, le braccia pendule come una scimmia, gli occhi fissi come un ebete, prima che raggiungessi la scala di comunicazione tra il piano terra e gli ambienti sottostanti: cantina, dispensa, lavanderia, chiesa, tugurio.
Sangue.
Un effluvio di sangue.
Un effluvio di sangue macerato.
Un effluvio di sangue macerato da almeno venti anni.
Una pentola di stagno con residui secchi di olio, adagiata su alcuni rinsecchiti tronchetti di legno – come uno schermo – tratteneva immagini catturate durante il loro antico passaggio – come uno scrigno di nature incorporee -, per riprodurle ai miei sensi inariditi,
al mio sguardo stupito, alla mia razionalità incredula, alla mia mente eretica – secondo un processo di trasmigrazione delle anime, una metempsicosi.
Ecco.
Un uomo, approfittando del buio, s’introduce nella cascina.
Nascondendosi come un legionario, coglie alle spalle l’unica persona, una donna poco più che ragazzina, presente nella casa.
Le pone una mano sugli occhi, le sussurra un nome all’orecchio, le bacia il collo teneramente.
Lei riconosce la voce.
Lei riconosce le mani.
Lei riconosce l’amore.
Lei sospira felice.
L’uomo le cinge la vita con un braccio – come un soldato di ventura-, la solleva dolcemente – come un amante -, continua a sussurrarle parole – come un traditore.
Giunti, insieme abbracciarti, accanto all’altare, le dice “Sposami”, lei risponde “Sì”.
E allora le bacia le labbra.
Un bacio breve.
Interrotto.
Non è sentimento, non è tormento, non è passione, non è amore, non è… lui non è.
Per lei è stupore, terrore, angoscia… per lei è impotenza. Immaginava di vivere la favola con l’arrivo del suo principe azzurro, nel ricordo di quand’era bambina. “Tu non sei lui. Lasciami”.
“Non potrai sfuggirmi.
Arrenditi”.
“Lasciami, bastardo”.
E allora la bacia con violenza.
Sulla bocca trattenendole la testa – come una bambola di pezza -, sul collo comprimendole le guance – come il morso per una cavalla-, sul seno acerbo – strappandole stoffe e bottoni. “Lasciami bastardo.
Vigliacco bastardo”.
E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
“Lasciami bastardo.
Vigliacco bastardo.
Non farlo”.
Tutta nuda, le mani legate, le gambe divaricate a forza, la testa schiacciata con vigore su una vecchia coperta, gli occhi del lupo appena sopra la faccia, l’alito caldo della violenza sul suo respiro affannoso e ansante, le mani assassine sui seni sui fianchi sulle cosce sui seni sui fianchi sulle cosce sui seni sui fianchi sulle cosce… e piange.
“Ti prego lasciami”.
Non basta un fuscello a fermare una valanga.
Non basta una nota d’arpa ad ingentilire un colpo di grancassa.
Non basta una preghiera a convincere il fato.
Non basta, non basta, non basta mai credere per giovarsi della verità.
Bisogna CAPIRE.
L’uomo dai tratti simili ai miei e dalla voce simile alla mia si toglie la camicia, si abbassa i jeans, schiaccia il suo corpo rude sulla bella pelle candida, ormai pronto a gettare il suo estremo abuso contro la serena fanciullezza, il suo vigore vigliacco contro l’ingenua tenerezza, il suo sesso straziato da mille bagasce puttane fin dentro la purezza dell’innocenza.
“Se lo fai ti uccido”.
Lo fece.
Certo, lo fece.
Ora io so bene cosa accadde, conosco la verità.
Infatti, le ombre impresse nel tugurio-tomba non hanno più interrotto l’infinito vagare tra le tenebre delle loro dimensioni esistenziali, inanellando le scene ed i dialoghi secondo il loro corretto sviluppo.
Ora io possiedo la chiave di ferro, la cui riconsegna al Notaio nelle prossime ore, se lo farò, provocherà l’immediata demolizione della casa, della chiesa, del tugurio dello scheletro… della storia, e detengo anche
-«Una chiave, ideale, idonea a che si apra – il Notaio disse – la corretta lettura per una parte ignota della sua vita: la parola “CAPIRE”.»
-«Una parte ignota della mia vita?»
-«Appunto».
Le ho utilizzate entrambe, spingendomi molto al di là dei miei limiti, posso dirlo ormai, fisici e spirituali.
Lo scrigno di nature incorporee ha composto, forse per me solo, le azioni finali del dramma, anzi della tragedia vissuta venti anni prima su una coperta parzialmente arrotolata.
Ora io so bene cosa accadde, conosco la verità, e quel che più conta ho CAPITO, ma, poiché ora io so altrettanto bene cosa farò, quali saranno le mie scelte immediate, e quali quelle future, aggiungo il mio personale finale a questo manoscritto, prima di seppellirlo per sempre accanto al cadavere, e di avviarmi a riconsegnare la chiave di ferro.
L’altra, quella ideale, mi sarà ancora d’aiuto.
Riprendo da: ”Se lo fai ti uccido”.
Lo fece.
Certo, lo fece.
Per tutto il tempo che volle.
Sollazzando il suo barbaro istinto sul corpo, nel corpo, e nella mente e nella vita di una donna, poco più che fanciulla, ormai immobile più che una morta.
“Madre… aiutami.”
Lo fece.
Certo lo fece.
“Madre… aiutami.”
Per tutto il tempo che volle, fino a sentire prepotente il getto di liquido caldo uscirgli dai coglioni e schizzare attraverso il pene ben oltre le labbra aperte dallo stupro senza fine.
Nella pancia, nell’utero.
E come un toro quando tenta di sollevare la muleta, l’uomo dell’inganno, il peccato del mondo, la violenza, l’arroganza, il mercenario dalle grinfie avide, il mago truffatore, il maledetto, Ignazio di Frigeria, nel preciso momento dell’orgasmo, per la tensione della eiaculazione, alzò la testa, cozzando contro il telo bianco che sosteneva la sabbia sull’altare.
“Madre… aiutami.”
Lo fece.
Certo che lo fece.
Fin quando. al limite dell’eccitazione, alzando la testa come un toro nell’arena, cozzò contro il telo bianco che sosteneva il simbolo del martirio e del sacrificio, procurando, con la lacerazione della stoffa, lo schianto in verticale del corposo crocefisso di ferro forgiato a mano.
Tra la sua spalla e la sua testa.
Sulla giugulare.
La punta formata dai piedi in croce, gli penetrò violentemente nella carne – come lui stava ancora facendo -, lacerò la sua vena gonfia di sangue – come lui aveva fatto -, l’uccise – come lui fece -.
Ora, io so bene cosa farò.
E Gilda, vedendomi. saprà CAPIRE.

FINE

Dedicato a mia madre, dopo tanto tempo.

Per Aurora – volume quinto – Così fu PARTE 2 CAPITOLO SECONDO

Dedica

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così fu

PARTE 1

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CAPITOLO TERZO

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Poesia sporca

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ISBN 9781471068423

Bruno Mancini
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Modificato: 31 ago 2022
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Anno del copyright 2022

E allora la bacia con violenza. Sulla bocca trattenendole la testa – come una bambola di pezza -, sul collo comprimendole le guance – come il morso per una cavalla-, sul seno acerbo – strappandole stoffe e bottoni.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo”.
E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo, Non farlo”.

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Per Aurora – volume quinto – Così fu PARTE 2 CAPITOLO PRIMO

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Per Aurora – volume quinto – Così fu PARTE 2 CAPITOLO PRIMO

PARTE 2

CAPITOLO 1

Sangue.

Un effluvio di sangue.
Un effluvio di sangue macerato.
Un effluvio di sangue macerato da almeno venti anni.

Non che io ne avessi già avuto la percezione in precedenza, e se anche per caso, chi sa quando, mi fossi altra volta imbattuto in tale sgradevole esalazione, certo non ne avevo associato al lezzo l’origine.
Eppure, compiuti pochi passi oltre il focolare, ho avuta una inspiegabile cognizione di dover seguire quel tenace effluvio di sangue macerato da almeno venti anni.
Attratto come da una calamita, stordito come da un etere, ciondolando come un ubriaco, il capo chino come un cane, le braccia pendule come una scimmia, gli occhi fissi come un ebete, ho raggiunto la scala di comunicazione tra il piano terra e gli ambienti sottostanti: cantina, dispensa, lavanderia, chiesa.
Esatto, un ambiente consacrato, ove, almeno due volte l’anno fin quando la Signora Aurora fu in vita, un sacerdote, con barba bianca e tanta voglia delle golosità alcoliche disponibili in casa, diceva messa alla presenza delle famiglie di tutti i domestici al completo (me compreso).
Per la verità, se non altro nelle ultime occasioni in cui fui presente, più che seguire il rito proposto dall’officiante, la mia attenzione divagava tra le futilità proposte dalle situazioni contingenti e le movenze di Gilda, che ogni anno di più sentivo appartenermi interamente.
Ignazio, molto meglio di me, sapeva fingere di aver fede e di pregare mia madre avrebbe voluto accelerare la liturgia, ad esempio eliminando la bevuta del sangue che invece rappresentava il pezzo forte di Petrus, per riprendere i lavori domestici.
La Signora svestiva i panni di Donna Guascone, solo in quelle occasioni, e poggiava le dita alle tempie quasi a dotarsi di un paraocchi che ampliasse la sua concentrazione verso l’altare, nell’attesa di essere liberata, mediante il gesto della croce, dai peccati di cui si era pentita in confessione.
Tutti gli altri, comparse, vestiti sempre con gli stessi abiti della festa, ripetevano sempre le stesse scene, alzandosi, inginocchiandosi, e cantando e pregando sempre con gli stessi toni di voce, ogni volta che l’uomo sull’altare, Petrus, ne dava l’imput.
L’altare, un marmo bianco lungo non meno di tre metri e largo circa due metri, poggiava solo sui tre lati frontali sagomati utilizzando mattoni ricavati squadrando pietre verdi presenti in una località chiamata Cavallaro.
Al suo centro era stata scalpellata un’ampia buca rotonda come un’ostia, nella quale la Signora Aurora, ad ogni cerimonia, voleva fosse collocato un contenitore di tela anch’essa bianca ripieno di sabbia raccolta durante la notte precedente lungo la marina antistante il vecchio cimitero di Sant’Anna a Cartaromana. Appena Petrus raggiungeva l’altare, in essa, cioè nella sabbia depositata nella buca a forma di ostia, lei, e solo lei, la Signora Aurora, conficcava un pesante crocifisso di ferro lavorato a mano che mi colpiva per aver le quattro sporgenze tutte a forma di punta. Potevo comprendere che ne fosse provvisto il lato lungo, dovendo penetrare nella sabbia per reggerne il peso, ma non riuscivo a dare una spiegazione agli altri aculei, anche perché la sagoma umana non era rappresentata né inchiodata né adagiata alla croce, bensì proprio le sue fattezze costituivano la geometria del simbolo, e quindi i suoi piedi – accavallati -, le sue braccia – distese-, la sua testa – eretta -, terminavano tutti in una struttura volutamente appuntita, forse per apparire come emblematici elementi indicanti pungoli morali e spirituali.
Discesa, non so come, la scala, fiancheggiata la dispensa e la cantina, mi sono avvicinato all’altare, e forse inciampando, forse per una perdita di equilibrio, forse per una ulteriore mancanza di forze, mi sono trovato inginocchiato con le mani aggrappate al bordo di marmo consacrato.
Mancava il crocefisso.
Ho chiuso gli occhi, ho stretto i pugni per non piangere, ho espresso un desiderio, un’esigenza, una ragione di vita: CAPIRE.
“Perché Gilda, la vita mia, la figlia di Aurora, il mio amore, la verità, la parte giusta della mia umanità, perché Gilda, la mia croce, la mia delizia, perché Gilda, la mia anima, la mia poesia… tutto passato, tutto finito, tutto passato, tutto finito con un addio incomprensibile, ingiusto, immeritato, immotivato, venti anni fa…”.
Neppure avevo terminata la frase ed ho udito, o forse solo sentito nella mia mente, chiaramente, la voce inconfondibile di Aurora rimbalzare da una parete all’altra, dal soffitto al piano di calpestio, passando e ripassando davanti e dietro la mia testa, roteando, ondeggiando, oscillando, esatto oscillando, l’ho sentita ripetere tre, cento, mille volte: “Ancora pochi passi e la metempsicosi spirituale che intendevi costruire tra il tuo passato ed il tuo futuro sarà completata”.
È stato come il vento forte che anticipi l’arrivo del temporale mentre si è intenti, fermi sul lembo estremo della scogliera, ad ammirare il sole scomparire oltre un orizzonte sempre ambito e mai raggiunto.
Che fare?
Restare ad accogliere la nuova dimostrazione di forza della natura, con il corpo passivo e la mente eccitata?
Cercare riparo tornando, correndo, fuggendo?
Andare incontro alla tempesta, a braccia aperte, sforzandosi d’individuarne la provenienza scrutando i primi barlumi di lampi oltre le nubi squarciate dagli ultimi raggi rossi?
Mia madre ci portava laggiù, sotto l’altare, in fondo alla botola segreta, nel tugurio utilizzato un tempo quale ricovero dai bombardamenti ed occasionale rifugio per combattenti della resistenza anti nazista.
Mia madre portava laggiù me e Ignazio durante la guerra, lasciandoci soli per non sottrarci spazio. Una tomba.
Limitata in alto dal sacco di sabbia contenete la croce, di poco più alta di una tomba e di essa poco più spaziosa, la grotta tugurio riusciva ad accogliere al massimo due adulti in posizione distesa.
Finita la guerra, passato il pericolo nazista, solo Ignazio ed io conservavamo il ricordo di quei giorni e di quel luogo, rivisitandolo di tanto in tanto per fumare le prime sigarette proibite.
“Appena posso, partirò per diventare un nuovo partigiano, un vero combattente – mi disse Ignazio nell’ultima occasione della nostra discesa -, e se dovrò fuggire, verrò a nascondermi qui.”
Raccolse una vecchia coperta… una pentola di stagno… dei tronchetti di legno… una corda… una bottiglietta d’olio, ed altri oggetti che immaginava potessero essergli utili in una tale eventualità e stipò tutto, ordinatamente, nell’angolo in fondo alla grotta.
Intanto che in me si sono accavallati simili ricordi, la voce di Aurora non ha smesso di ripetere ossessivamente, senza tregua “Ancora pochi passi e la metempsicosi spirituale che intendevi costruire tra il tuo passato ed il tuo futuro sarà completata”, ed io ho caricato nel mio cervello l’ultimo brandello di coraggio, muovendomi carponi verso il retro dell’altare.
Gli ultimi passi sono i più faticosi, l’ultimo boccone è il più indigesto, l’ultima speranza è la più dolorosa.
Uno scheletro in posizione prona.
Trafitto alle spalle da un crocifisso.
Il crocifisso della Signora Aurora, di ferro lavorato a mano, penetrato attraverso uno squarcio nel telo bianco che reggeva la sabbia nella buca a forma d’ostia al centro del marmo.
Ho fatto appena in tempo a leggere il nome sulla piastrina di riconoscimento legata alla catena che avevamo avuto in regalo il giorno della prima comunione, Ignazio ed io, e non so ancora se sono morto durante tutto il tempo seguente in cui ho sognato.

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Per Aurora – volume quinto – Così fu PARTE 1 CAPITOLO TREDICESIMO

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CAPITOLO 13

Adesso che la retrospettiva del fatuo e del vanesio si dibatte all’interno del collo dell’imbuto formato, per un bordo, dalla infallibile ricostruzione totale fatta da sensi ignoti che superano il limite della memoria, e per un altro orlo, dalla debole intraprendenza che il rispetto per la verità impone alla sincerità ed all’orgoglio della mia passione, adesso dunque mi resta meno arduo assecondare l’impulso assassino verso il frastuono incontrollato delle attese giovanili.
E lascio statica una scena nella quale Gilda, ancora seduta sul gradino di pietra ruvida e grigia, avvolge un lembo della gonna intorno all’indice della mano sinistra – le ginocchia quasi fino al mento, le rose stampate sulla stoffa di cotone accartocciate tra le pieghe e le cuciture-, e nella quale sono io che manco.
I topi e le blatte, nel salone polveroso e fuligginoso, non si limitavano a considerare quello un luogo proibito per il cui accesso si sottintendessero numerosi controlli e prudenze, ma, per la loro quotidiana frettolosa ricerca di cibo, lo frequentavano come un luogo di transito simile alle moderne piazze principali di ogni di sobborgo.
Dove la gente va e viene, e l’insieme d’impettiti funzionari e lerci barboni, di atleti e di disabili, si muove in un continuo intrecciare contatti superficiali e quasi sempre privi di contenuti.
Altra cosa rispetto ai paradigmi che ci siamo tramandati relativi alla Agorà.
Le piazze sono state pulsanti di vita fino a quando non esistevano ancora le automobili per poi degenerare in semplici o complessi punti di svincolo in funzione dei mezzi di locomozione.
La piazza era vita, quando non esistevano né le cabine telefoniche né i cellulari, e quando gli appuntamenti, programmati con congruo anticipo, si usava fissarli nel luogo
comune per antonomasia all’angolo della piazza.
Quei luoghi erano animati di vita, quando i bambini giocavano senza guinzagli, quando gli anziani utilizzavano bastoni e non badanti extra comunitarie, e quando le belle di giorno e di notte diffondevano tracce di profumi parigini in locali poco distanti sia dagli edifici adibiti ad ambienti di culto e sia dai locali attrezzati per la pubblica amministrazione, e quando gli uccelli, per riposare di notte, avevano disponibili distese enormi di boschi e di pinete e non cercavano, in migliaia, provvisori disagevoli rifugi nei quattro alberi centenari che oggi disegnano il perimetro degli spazi adibiti ad isole pedonali.
Ricordo Piazza Maggiore nel giorno in cui fu nazionalizzata la produzione e la distribuzione di energia elettrica.
Il fermento di voci al passaggio dello strillone che annunciava l’evento.
Fu molto simile all’agitarsi dei fagioli nel pentolone senza coperchio ribollente sulla fornace di carboni che mia madre, di tanto in tanto, alimentava con un ventaglio di paglia nella cucina attigua al salotto.
Nel novero delle pseudo allucinazioni cataloghiamo di norma ogni nostra esperienza personale che non abbia conforto nei più ampi riscontri di una consistente parte della collettività.
Tuttavia, fin quando si tratti di percorsi semplicemente mentali, fantasiosi o sognanti che siano, i nostri interlocutori appaiono sempre propensi a benevoli ascolti e ad indulgenti interpretazioni, mentre, nei rari casi in cui un tale, qualcuno, riferisca il materializzarsi di una situazione pratica, tangibile, oggettiva, inspiegabile per le conoscenze del momento, ecco che scattano sistemi di auto difesa collettiva i quali, se pure non apportando benefici al progresso generale delle conoscenze comuni, tuttavia permettono la stabilizzazione di apparati atti ad avviare coprifuochi preventivi, e finanche essi, in casi estremi, attivano apposite strutture cui affidare il disorientato protagonista per la cura di presunte malattie mentali.
Penso al polpo che, in un giorno particolare, stanai senza procurargli alcun danno fisico da una grotta ricavata nella fenditura di due macigni precipitati dalla parete sovrastante la baia di Cartaromana a seguito d’interventi speculativi.
Lo trasportai con la massima delicatezza fino a riva, accettando la pressione delle ventose procurata dal suo difensivo avvolgersi al mio braccio.
Giunto a riva, lo immisi in una vasca trasparente, non tanto profonda, ma ben sufficiente a contenerlo tutto, ebbene, mi fermai a notare che il polpo restava quasi costantemente con la testa fuori acqua.
Rimasi stupito, non perché stessi assistendo ad un atteggiamento sconosciuto, ma per l’improvvisa consapevolezza che non avrei mai tentato di dare una spiegazione a tale modo di agire forse solo apparentemente contraddittorio con la natura marina del polpo.
Con l’intento di assegnare un preciso contenuto di analisi comportamentale ai mutamenti delle sue azioni, preparai una tanica trasparente piena d’acqua di mare, lo presi per la testa, lo trasferii in essa, chiusi il lato superiore del contenitore mediante una rete a maglie larghe sì, ma non tanto da permettergli di attraversarle, ed in questo stato lo trasportai in un tour di conoscenza del “nostro” mondo attraverso tappe puntigliosamente preordinate.
Il polpo poté guardare vari programmi televisivi tra cui il telegiornale di Emilio Fede e un documentario avente per oggetto il mondo sommerso della costa tirrenica, fece conoscenza con le cagnette – cucciole curiose – Rotty e Lola che l’intimidirono sbuffandogli aria calda con le lingue penzoloni, ebbe modo di ammirare erbe, cespugli, fiori, alberi, nuvole, cielo, sole, luna stelle, automobili, strade, piazze, suoni, vento.
Ebbe contatto fisico con molte specie di animali mai prima incontrati né immaginati: i gatti del ristorante con locanda sulla banchina, i canarini i cardellini ed i pappagallini del barbiere di Via Colonna, le galline i conigli le oche ed i tacchini della contadina con piscina termale ed impianto foto voltaico posizionato sul tetto della stalla.
Ascoltò in presa diretta suoni e rumori, senza le distorsioni provocate dalle onde frangenti sulle scogliere, dal rotolare dei sassi sui fondali marini per le irrequiete risacche, dalle eliche dei gommoni, motoscafi, navi crociera cariche di pseudo sfaccendati amanti del mare ma che incoerentemente avevano scelto d’immergersi nelle piscine sul ponte di prima classe e cibarsi con gamberi, aragoste e molluschi – polpi compresi purché piccoli e teneri -.
Udì il suono di campane a festa per la gloria di Sant’Anna, il contemporaneo tripudio della processione durante il tragitto verso l’omonima antica chiesetta abbandonata, semi diroccata ed invasa da bisce topi ed insetti di ogni dimensione. Percepì i collettivi sussurri gloria – amen – deo gratia della folla di fedeli in simbiosi con le omelie dei sacerdoti e del vescovo.
Ebbe giorno e notte diversamente sfolgoranti rispetto alle ottenebrate ripetitività dei suoi fondali marini.
Quando mai aveva annusato il letame degli animali da cortile, il sudore del suonatore di tuba ingabbiato nella divisa delle grandi occasioni, il fumo magico dell’incenso, gli olezzi artificiali a base di fiori d’arancio – gelsomino – rosa antica – giglio – tabacco cubano – hashish – marijuana dei penitenti in processione, i fumi bianchi e sudici di salsicce alla brace – pesci fritti – polpi in casseruola esalati durante una festa di ringraziamento per il patrono locale durante le ore antecedenti lo spettacolo dei fuochi pirotecnici?
Ho detto polpi in casseruola, poiché in un anno furono effettivamente serviti in casseruola e non all’insalata come in tutti gli anniversari precedenti.
Il termine della lunga immersione nell’aria che gli concessi, coincise con il momento in cui mi parve di aver appagato la mia sete di conoscenza per i suoi comportamenti, e quando finalmente decisi che avrebbe avuto una quantità innumerevole d’informazioni da ripetere ai suoi, devo dire con-terranei se non posso dire con-sabbinei o con-scoglierei.
Lo rimisi in mare nella stessa identica buca dello stesso scoglio dalla quale l’avevo prelevato, soddisfatto di sapere che in poche ore gli avevo elargito tutta una serie di esperienze, i cui racconti, una vota illustrati ai suoi simili, l’avrebbero fatto apparire alla loro incredulità, né più né meno simile ad un umano che tentasse di far credere ad un gruppo di concittadini d’essere stato trasportato in una dimensione extra terrestre.
Naturalmente se i molluschi avessero lo stesso nostro distorto rapporto con la realtà.
L’amore è negli occhi di chi ti guarda.
Le confusioni sono nella mente di chi non ti ascolta.
Sono durate solo pochi minuti, tra fantasia e ricordi, queste stravanti divagazioni che mi avevano reso assente dalla realtà, poiché ben presto l’evidenza dell’immobilità temporale che permeava tutto il locale, pigiò tanto forte alla radice al nervo scoperto della mia tensione emotiva da farmi scuotere la testa tre volte in rapida successione.
In un sobbalzo, gli occhi ripresero movimenti indagatori alla ricerca di ciò che immaginavo, o forse veramente sapevo, essere lì in attesa che io lo trovassi per CAPIRE.
Nel salone nulla era sfuggito alla polverosa coltre propria degli ambienti chiusi per decenni.
Un manto copriva tutto.
Impalpabile, invisibile al primo sguardo, esso si evidenziava con il tenero gesto del dito mosso a seguire le pieghe dell’oggetto situato in bella mostra sul tavolo in cucina, oppure lambendo l’alto ninnolo posto a sostenere una foto scattata il giorno del matrimonio.
Velata era anche la panca sistemata accanto al rialzo dell’informe blocco lavico piazzato come separazione tra il fuoco, un tempo alimentato nel camino, ed il resto della
stanza–cucina.

Era un pulviscolo tanto sottile, e tanto lento nella sedimentazione, da lasciare intravedere la sagoma di Gilda seduta sullo scanno ed appoggiata con le spalle alla parete laterale.
Un’orma impolverata con la stessa lentezza di sedimentazione cui era stata sottoposto tutto il resto della casa, e non ancora sopraffatta da uno spiffero di corrente d’aria provocata da una porta che, aprendosi, rimescoli insieme alle particelle aeree anche le forme composte dalle loro deposizioni.
Un’impronta parlava di Gilda alla mia immaginazione, o forse al mio ricordo.
Gilda quel giorno aveva provveduto personalmente a sistemare i tizzoni sotto la cenere e le carbonelle in fondo alla bocca del camino. Prima di uscire.
Con i gesti di chi sa di non poterli mai più ripetere, aveva lasciato che la paletta di ferro verniciato, spostata e rimossa continuamente, accarezzasse la cenere accumulata in quantità superiore alle normali consuetudini.
E la guardava.
Fissava lo strusciare del metallo sulle crespature della pietra.
I piccoli sedimenti lignei ammantarsi del colore grigio chiaro.
Le briciole di tizzoni spegnersi ad uno ad uno.
Il gracchiante stridore del ferro trascinato in avanti verso il fondo del camino.
Fissava gli attimi dei suoi movimenti, intanto che nella sua mente le venivano riprodotte interminabili immagini della vita che si accingeva ad abbandonare.
L’ombra lunga sulla parete non lo diceva, ma Gilda non mi avrebbe più rivisto.

Per Aurora – volume quinto – Così fu PARTE 1 CAPITOLO TREDICESIMO

Dedica

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così fu

PARTE 1

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SETTIMO

CAPITOLO OTTAVO

CAPITOLO NONO

CAPITOLO DECIMO

CAPITOLO UNDICESIMO

CAPITOLO DODICESIMO

CAPITOLO TREDICESIMO

PARTE 2

CAPITOLO 1

CAPITOLO 2

Poesia sporca

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Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

seconda edizione

Version 5 | ID r99qmg

ISBN 9781471068423

Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Versione 4 |  ID r99qmg
Creato: 31 ago 2022
Modificato: 31 ago 2022
Libro, 100 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm)
Standard Bianco e nero, 60# Bianco
Libro a copertina morbida
Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00

Titolo Per Aurora volume quinto
Sottotitolo Alla ricerca di belle storie d’amore
Collaboratori Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Marchio editoriale Lulu.com
Edizione Nuova edizione
Seconda edizione
Licenza Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
Titolare del copyright Bruno Mancini
Anno del copyright 2022

E allora la bacia con violenza. Sulla bocca trattenendole la testa – come una bambola di pezza -, sul collo comprimendole le guance – come il morso per una cavalla-, sul seno acerbo – strappandole stoffe e bottoni.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo”.
E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo, Non farlo”.

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Info: Bruno Mancini

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Per Aurora – volume quinto – Così fu PARTE 1 CAPITOLO DODICESIMO

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CAPITOLO 12

Ho chiesto un taxi.
Ho indicato la meta.
Ho pagato la corsa.
Ho atteso che si allontanasse.
Ho iniziato a muovermi verso la cascina.
La casa, imperturbabile, ha lasciato che mi avvicinassi con incedere inconsueto – deciso, ma lento -, forse curiosa di capire dove si allocassero le mie intenzioni, o forse ormai indifferente a qualunque improbabile tentativo di oltraggio.
Non ho udito scricchiolii di finestre mal chiuse e non mi hanno distratto rami ciondolanti e serpentelli striscianti negli anfratti alla base della muratura.
La casa collaborava a rendere intrigante la mia presa di possesso, e non si prestava a mostrarsi rivestita di misteri o d’imprevisti sulla falsa riga di un’avventura esotica. La casa stava.
Eri io che muovevo passi decisi ed incerti, sicuri e titubanti, attenti e precari, passi di automa mal programmato, di veglia sonnambulica, passi guidati da una ragione extra corporea, indefinita.
Frattanto, forse, Gilda sarebbe apparsa seduta, all’ombra della magnolia che aveva la sua stessa età, sugli scalini arrotondati che segnavano l’ingresso al pergolato di canne e foglie di palme, avvolgendo un bambino in braccio.
Oppure, Gilda sarebbe apparsa poggiata al fusto della magnolia, le mani intrecciate dietro il collo, i gomiti sporgenti verso l’intruso, nell’atto di coprire il suo territorio con la stessa determinazione della belva intorno alla cucciolata.
Avresti potuto offrirle il cinghiale selvatico ucciso a morsi e pugni e lei non avrebbe ceduto un millimetro di spazio ai tuoi tentativi di avvicinamento.
Un cucciolo: Isidoro.
Una zona proibita: la sua vita affettiva.
La sua cantilena: “Il mio piccino non sarà mai solo.
Il mio piccino non sarà mai solo.
Il mio piccino.”
Appena ho superato il cancello a stecche di ferro verticali con residui di vernici verdi e nere, ho provato, calpestando i sassi polverosi del sentiero d’accesso ad un piccolo campo, la sensazione che i miei mocassini firmati Velente avessero immediatamente odiato il titolato negoziante di Via Montepelone per non avere responsabilmente provveduto alla loro collocazione presso una figura umana adeguata, in quanto a stile di vita e classe sociale, alla origine ed al censo dei quali si pregiavano.
Tomaia di cuoio… cuciture con filo… punti a … pelle di… borchia e… vernice… con me nella polvere e nel fango.
Le scarpe con certificati di origine DOC, DOCEC, UE, MADE IN ITALY, a modo loro pensavano che neppure Napoleone Bonaparte, l’uomo delle disfatte ciclopiche, avesse subito simile affronto, e che loro, di certo, non meritavano tale ignominioso sfregio in così tenera età.
Per un attimo, poggiando la mano sul lato sinistro del cancello, nell’atto di agevolarne la chiusura difettosa a causa della ruggine sedimentata tra i mozzi dei cardini, ho avuto la tentazione di scalzarmi e proseguire a piedi nudi.
Per un attimo ho corso il rischio di vanificare fin dall’inizio il progetto amorfo appena cominciato.
Due colonne di tufo verde non intonacato fungevano, una – quella a sinistra entrando – da stabile appiglio verso la parte interna del podere per un sultano roveto dalle more grosse come ciliegie, il quale, a sua volta, consentiva alcuni disagiati inserimenti ad uno striminzito arbusto di capperi attiguo ad un cespuglietto di bocche di leone in piena fioritura, mentre l’altra colonna, quella verso nord, meno esposta alla calura estiva, e situata al riparo dell’ombra di un ficus alto oltre quattro metri e largo fino al successivo angolo del muro di cinta, pareva civettare nel mostrare la pelle rugosa delle sue pietre dai toni cangianti a secondo che variassero le luci e le ombre di contorno.
“Bisognerebbe scrostare le scaglie di vernice dai segmenti verticali del cancello, scartavetrare il disegno composto da semplici volute a forma di spirali che si uniscono tra di loro, e che congiungono le barre di sostegno forgiate a mano, nell’antica eleganza propria dei lavori artigianali, ribattendo il metallo su una vecchia incudine a forma di doppio cono.
Sarebbe urgente completare l’opera di ripristino ridando lustro alle lance infisse in cima alle aste divisorie ove completano la parte superiore della cancellata come una corona di artigli.
Spuntare i rami penduli spinosi che creano intralcio alla chiusura del cancello e costituiscono un pericolo per le pregiate camicie di lino inglese che indosso.
Smussare i bozzi antiestetici scavati nelle pietre dal rivolo non incanalato che cola dalla sommità del pilastro. Bisognerebbe… ma sono pazzo?
Come se la mia presenza non bastasse già a svilire il paziente equilibrio ottenuto da questo lembo, di tempo più che di spazio, incurante delle violenze portate dagli uomini fino intorno ai suoi confini!”
L’aspirazione del pellegrinaggio laico per molti anni dato per scontato dalla nostalgia ma rifiutato dalla suggestione della malinconia, eppure mai prima valutato nelle conseguenze pratiche, rischiava di trovarsi sfaldata al momento dell’iniziale impatto con una realtà, ove i pensieri di abitudini a me comuni mostravano di essere rabberciati ad inconsueti schemi di rivolta.
Sfuggendo al dedalo di considerazioni che imboccavano l’uscio della mia attenzione, ruotando il capo in direzione del viale sommerso sotto erbacce affastellate dai lati verso il centro in un groviglio che a mala pena lasciava scorgere una porzione del tetto con due comignoli a forma di parallelepipedo, ho smesso di porre mente al lavoro manuale che sarebbe occorso per restituire i luoghi alla loro primitiva configurazione, e mi sono avviato, lentamente, verso la ricerca di una mia origine.
“CAPIRE”.

Certo anche nel viaggio mentale bisognava scostare barricate pungenti e resistenti come i roveti insediati dalla natura in maniera disordinata lungo il camminamento che conduceva alla casa, ed occorreva dipanare una immensa ragnatela di labili ricordi e trasparenti indizi agganciandone la scia invisibile con l’attenzione di chi debba razionalizzare il percorso prescelto.
Nel mio seguire un filo di intrecci meno folti, quasi una giungla casereccia, formato in prevalenza da liane di edere mediterranee e felci sovrastanti papaveri all’ombra delle ginestre (ginestra, fiore amato dalla mia donna) non ancora in fiore, la mole simmetrica del fabbricato, con i due balconi del primo piano poco distanti dagli angoli ed il portone di legno massiccio punteggiato all’estremità superiore da una nicchia votiva per un santo protettore, ad ogni passo, mi veniva incontro piano piano mostrando i segmenti di un puzzle che andavano continuamente ad accostarsi fino a formare la visone totale della sua struttura.
Finché, inaspettatamente, le piante e gli arbusti hanno finito di occupare parte del territorio, lasciando una chiazza semi desertica in corrispondenza del cortile antistante l’ingresso.
Un regalo della natura aveva permesso che il tavolo ed i sedili di lastroni lavici sistemati appena accanto al pozzo fossero soltanto ricoperti di muschio e piccoli fiori di campo, mentre, stupendamente incoronato da tralci di vite selvatica, il piano terra si confondeva con l’adiacente boscaglia.
Volevo, potevo, dovevo entrare?
“Che sia più semplice raggiungere una meta che non goderne i privilegi?”
Mancavano molte ore la tramonto, ed io ho avuto voglia di entusiasmarmi per ogni particolare di quel luogo, né brullo né antico, né vivo né solingo, così simile ai contorni che la vita mi offriva nella quotidiana stagnazione di affetti e prospettive di speranze.
Cos’altro erano le mie giornate tra scartoffie, progetti, bolli, scadenze, impegni, indirizzi, ripetitivi incontri, Mario l’usciere, Aniello il barbiere, Giuseppe l’autista, Vincenzo il praticante di studio, Cinzia la segretaria, Anna la collaboratrice domestica, Domenico il giornalaio, Teresinella la barista che mi porgeva il cappuccino al mattino, Rosa la bellina del bar all’ora dell’aperitivo, documenti, appuntamenti, relazioni, accordi, carte e poi di nuovo scartoffie… se non una lunga stagnante riproduzione della natura, ove le ginestre (ginestra, fiore amato dalla mia donna) continuino a fiorire nei periodi previsti, le edere seguitino senza sosta ad arrampicarsi verso i comignoli più alti, ed i papaveri contrastino un posto al sole alle margherite?
A Roma non avrebbe avuto senso che io ragionassi intorno all’ipotesi di potatura del grumo di spine, come non avrei impegnato più di un minuto per decidere se provvedere alla tinteggiatura del cancello ed al ripristino estetico dell’intero perimetro del muro di cinta.
A Roma, nel mio ufficio di Piazza Mergellina, la segretaria Gloria si faceva quotidianamente carico di risolvere ogni minimo dettaglio delle contingenze che mi si presentavano.
Una balia, una balia abruzzese, una balia abruzzese cui affidavo i figli illegittimi dei miei impegni professionali.
Il contatto fisico con la tenacia consistenza delle assi d’ulivo scarnite dalle intemperie e poi increspate per il degrado dell’intero portone, offendeva e sfidava la leziosa morbidezza delle mie mani ben curate e prive di rughe.
Su di esso, fenditure profonde spaziavano in verticale, prevalentemente verso la parte bassa del legno con solchi profondi a forma di cunei e reticolati simili ai rivi della foce di un fiume tra lagune, stagni, e deviazioni per ostacoli formati da sedimenti venuti da lontano.
Intorno alla parte inferiore, principalmente a contatto con il suolo, il marciume dovuto alle pozze di acque stagnanti, ne aveva quasi polverizzato gran parte del bordo orizzontale strutturato come appoggio per le sette assi che componevano ciascun battente.
Non ho smesso di tastare, palpeggiare, annusare, sbirciare, fin quando non mi sono accorto che, dolcemente ma con caparbia determinazione, stavo sbriciolando i bordi consunti scavando nelle tane e tra le larve delle formiche.
Ho sentito, intanto che mi conformavo alle sensazioni tattili, olfattive, visive, prodotte dal connubio che andavo attuando con il luogo nel suo complesso, avanzare dentro di me, ma stranamente ancora più intorno a me, il respiro lento della precedente notte trascorsa tra veglia e sonno.
Una incipiente sensazione di completa immobilità, quasi mi stesse mancando la benzina nel motore e che fosse necessario avviare manualmente il ventilatore affinché rimanesse vivo il mio computer umano.
Molte altre volte al risveglio, in special modo dopo notti turbate da sogni troppo presto risultati evanescenti, mi ero accorto di simili sintomi e li avevo esaminati nel tentativo di poterli dominare, così che sentendoli sopraggiungere, pur nella completa veglia di quei miei primi passi nella cascina, mi sono meravigliato, ma ne ho tratte conclusioni logiche in sintonia con i riscontri oggettivi che mi erano sembrati prevalere nelle precedenti situazioni.
Accadeva che nessuna forzature riuscisse s muovermi.
Per ogni completo risveglio dovevo necessariamente attendere quei pochi o molti minuti necessari ad umettare le labbra, stropicciare gli occhi, stendere le braccia, contrarre le dita dei piedi, respirare profondamente, sbadigliare rumorosamente, emettere una serie di colpetti di tosse, usare la mano come sipario scivolante dagli occhi al mento.
A volte avevo tentato di rifiutare questo rito pagano al dio risveglio nei modi più semplici, ed anche nelle maniere più astruse, rincoglionendomi intorno ad una sciarada che avrei voluto comporre con differenti soluzioni, raccogliendo però quasi sempre deludenti sconfitte.
Infatti, quando con impegno riuscivo a sbloccare la distensione delle braccia, di conseguenza, accumulavo piccoli rapidi movimenti delle spalle, e se pervenivo con successo ad impedire volutamente uno dei colpetti di tosse, allora una serie sorda e strozzata di mugugni mi saliva e scendeva dalla faringe allo stomaco.
Niente da fare.
Con semplicità non ero mai riuscito a risolvere il caso.
Se non cessava il respiro lento non iniziavo la marcia.
Non si attivavano le pattuglie di avanguardie preposte alla salvaguardia dei percorsi da delineare come struttura per il mio nuovo giorno.
Un mattino tentai una nuova soluzione temeraria.
Gilda.
Gilda tra le mie braccia come non era mai stata riversa in mezzo ai fior” – diceva Quasimodo -, mi supera la luce e tocca le tue braccia ignude – diceva Quasimodo-, all’amata che in se agita un mio figlio – diceva Quasimodo.
Con un movimento rapido, inatteso, ma per niente incoerente, invece di alzarmi e correre incontro al sogno, misi la testa sotto il cuscino per non rischiare di perdere un solo lembo d’immagine altrimenti sfocato dalla luce penetrata attraverso le giunture sconnesse della finestra, per non disperdere una sola briciola del suo odore di muschio e di ginestre (ginestre, fiore amato dalla mia donna) nel turbinio di effluvi di caffè e di fette biscottate che mi giungevano diffondendosi dalla cucina, per non dimenticare il null’altro importa che volevo rinchiudere in un profondo ed inaccessibile, anche a me stesso, scrigno di difesa.
Invece di schizzare dal letto ed andarla a cercare, sentii girarmi la testa, le palpebre pesanti, il suono di una nota alta di clarino tenuta continua come un fischio di richiamo, le mani gelate, il cuore fermo e Gilda che rideva, tra le mie braccia, con il volto ondulato dai frammenti di luce filtrati tra le foglie della magnolia, e rideva e rideva, tra le mie braccia, con il corpo adagiato in un groppo di papaveri e bacche di mirtilli, profumata di muschio e di ginestre e papaveri e mirtilli e gioia, come non aveva mai fatto.
In verità, fin dall’infanzia, i nostri destini parevano inseparabili, simili ai pali infissi nella laguna veneziana che delineano il tragitto dei vaporetti di linea.
Allineati verso una identica lontana meta ma distanti quanto basta per essere continuamente divisi non soltanto dallo spazio fisico ma finanche, peggio, dal rumore disordinato dei pendolari e dei vacanzieri che percorrono quella tratta, dagli sbuffi di nafta soffiati dalle ciminiere dei battelli, dal moto ondoso provocato dalle eliche in continuo passaggio.
Con una iperbole fantastica, in età successive, avremmo potuto credere che le finestre delle nostre stanza si confrontassero chiedendosi: Era lui?, Era lei?, Si è già affacciato?, Dorme?, Studia?, C’è la Signora?, Aspetta?, Aspetta!, intanto che catturare con uno sguardo il suo finto innaffiare il vaso di gerani alla finestra mi bastava per avere la speranza d’incontrarla più tardi, forse, chi sa, all’angolo del viale tra la locanda e il ciabattino, durante il suo ritorno a casa dalla vicina merceria.
Quasi come per caso, nonostante avessi levigato quel tratto di strada con un continuo insignificante via vai.
Gilda?
Gilda?
Avrebbe riprodotto il mio volto ad occhi chiusi, disegnato le mie mani senza il minimo errore, riconosciuta la mia sagoma anche di profilo, anche di spalle, con la certezza di un istinto ancestrale.
Avrebbe voluto il mio amore con la passione di una vergine fanciulla incantata da un sentimento sconosciuto ed invadente.
Due pali nella laguna che niente e nessuno univa, e che da soli non trovavano il sistema di accostarsi, nonostante fossero, nei sogni e nei pensieri, nei sogni e nei pensieri, comunque, nei sogni e nei pensieri, sempre, propensi, determinati, decisi, oltre ogni altra volontà, e desiderosi di sradicarsi per galleggiare uniti. Invidiosi dei colombi che tubavano sulle loro sommità.
Durante la nostra gioventù, le mattinate sembravano passare con le monotonie visive e le staticità fisiche di un impianto scenico ove le luci e i colori e le forme e le dimensioni siano trattenute nella loro originaria bellezza dalla forza del tempo che le gestisce.
Le notti scorrevano in un turbinio di sopraffazioni, intrecci, incastri, smosse e confuse per minuscoli dettagli ed enormi visioni.
“Aveva girato lo sguardo verso il gatto randagio che attraversava la via oppure… oppure… oppure mi aveva guardato?”
” Non sono io la preda da conquistare!”
“La preda?”
“Lei non sarà mai una preda.”
“Gilda io l’amo.”
Neppure il tempo di soffermarmi sulla parte logica di queste questioni ed ecco le notti, sempre, apparire immobili contro la violenza di urla disperate, secche e ripetitive, come accordi iniziali della quinta sinfonia: papapapà – pàpapapa.
Vieni da me!
Vieni da me.
Il gallo taceva sbalordito, le campane non colpivano i batacchi, il pullman di linea s’inerpicava su tornanti dall’acustica frammentata, gli anziani vicini di casa – di notte svegli da sempre – misuravano la potenza ed il timbro per elaborare
una proiezione e prevedere un nostro futuro incontro.
Lo sforzo fisico di resistere al sonno pur di soffrire, in piena solitudine, le pene di un amore desiderato e sconosciuto, vicino ed inesistente, per la mia, per la mia Gilda, bellissima, dolcissima, issima issima issima.
Ritornando a descrivere il percorso di avvicinamento alla meta “CAPIRE”, riprendo dalla “incipiente sensazione di completa immobilità” avvertita mentre stavo sbriciolando i bordi consunti del portone scavando nelle tane e tra le larve delle formiche”. Mi sono detto “Rilassati”.
Rifletti.
Alla sfida dei sentimenti, imponi la forza della ragione.
Alle sofferte rinunzie, continua ad opporre il riguardoso rispetto per scelte non tue, mai tue.
“Venti anni di solitudine sentimentale sferzati da ammalianti ricordi d’irripetibili emozioni trascinati come una croce incomprensibile, ingiusta, immeritata, immotivata, aspettano che tu compia altri passi, apra il portone, e segua i fluidi.
Per CAPIRE”.
Autocontrollo, tensione mentale, per una corporeità che avvertiva sempre maggiormente affievolite la capienza e la portata dei suoi terminali percettivi.
Di contro, il traino del mausoleo pieno di dubbi che mi ero trascinato dietro durante tanti anni, in quel luogo, in quel momento, davanti a quel portone, ha acquisito la struttura elementare di un guinzaglio.
E ad esso, nella parte terminale era aggrottala la scatolina porta oggetti in legno intarsiato a fuoco con le sagome di due cani ed un gatto che ho sempre conservata gelosamente, recuperandola quando era stipata tra i detriti alluvionali dei regali, salvandola dai roghi di vecchie cianfrusaglie appiccati per favorire nuove collocazioni d’insulsi modernismi, separandola dalla continue decimazioni perpetrate in danno di apparenti inutilità, ed inserendola nei numerosi traslochi per i miei trasferimenti abitativi.
Dimensioni ridotte – solo pochi centimetri per lato -, capienza minima, colore cartone bagnato, piccole cerniere deformate di latta brunita, il segno di una toppa in cui tempo addietro veniva inserita una chiave dai segmenti elementari, la parte superiore incisa in un bassorilievo con due cani di profilo sullo sfondo, muso contro muso, ed un gatto in primo piano di spalle con la testa rivolta verso l’alto.
Mi dicevo rilassati.
Con la luce che mi tagliava in due.
Da una parte, la schiena posta all’esterno dell’uscio coglieva il sole calante filtrato tra i residui di una nuvolaglia priva di pretese, dall’altra, il petto e le sporgenze del viso sguazzavano in un’ombra, un quasi buio perenne che imponeva, esso, alle mie palpebre di socchiudersi, alle mie iridi di rinchiudersi, alle mie fantasie di temere, al mio affetto di sovrapporre le doti alle forme.
Il volo gelatinoso ed ovattato di un odore senza definizione mi rendeva baco da seta in un bozzolo.
Avrebbero dovuto fermarmi prima che mettessi piede al di là del blocchetto di ottone sul quale una sporgenza ormai consunta e livellata da una sottile fanghiglia avrebbe potuto mostrare l’anno 1872 se solo fosse stato rimosso il velo di erbe selvatiche che lo ricopriva.
Ormai non avrei più ascoltato, anzi, udito, voci di richiamo. La raffinata attesa di CAPIRE era covata in me troppo tempo, rivivendo nel suo distillato fantastico, l’addio di Gilda, venti anni fa: una croce incomprensibile, ingiusta, immeritata, immotivata.
Deprimendomi ed entusiasmandomi nella ignota galassia dei suoi comportamenti e dei suoi sentimenti.
“Non devi più pensarmi”
“Impossibile, ti amo”
“Dimenticami.”
“Impossibile, mai”
“Voglio che non mi cerchi più”
“Perché?”
“Mai più”
“Fammi almeno CAPIRE”
“Addio”
Frasi e suoni, atmosfere movimenti stasi rimbalzi pianti pensieri carezze e sguardi e baci e strattoni e spinte e mani dolci ed incantate.
Tutto passato, tutto finito, tutto passato tutto finito con un addio incomprensibile, ingiusto, immeritato, immotivato, venti anni fa.
CAPIRE.
Magari, magari, magari una minima porzione, magari tutto. Magari con violenza, magari con dolore, liberandomi dalle notti finite su cuscini per terra con la testa una boa nel mare di scirocco.
“Un altro passo, apro il portone, seguo i fluidi”.
Ho inserito la chiave, quella di ferro avuta dal Notaio, nella toppa.
Ho ripetuto, inutilmente, tre volte il tentativo di far scattare la molla di apertura della serratura.
Alla quarta prova un leggero cedimento ha favorito il successivo sblocco del meccanismo di chiusura.
Ho mosso l’anta del portone solo di quel tanto utile al mio passaggio.
E sono entrato, richiudendo rapidamente.
Ero certo che le onde esistenziali, prigioniere della parva ampiezza spaziale nelle quali erano confinate, avrebbero potuto rivivere, per me, come durante la notte ignota della mia vita.
Nessuno avrebbe potuto dissuadermi dal credere che, così come è possibile catturare in qualunque ambiente onde magnetiche di suoni radiofonici, d’immagini televisive e di miliardi d’altri segnali provenienti da fonti emittenti quasi sempre sconosciute, allo stesso modo non sia possibile attraverso un distinto processo fisico – chimico – quantistico – ondulatorio – cosmico non importa, simile o dissimile dagli altri non importa, stabile, precario, materiale, non importa, ricostruire i flussi energetici originariamente espulsi con veemenza nello stesso luogo in cui tentiamo la loro intercettazione.
Volevo questo, ciò, nella stanza al primo piano dietro la finestra affacciata sul portone.
Come se bastassero le ombre, i fluidi, le onde elettromagnetiche a rappresentare sentimenti, immagini, speranze!
Via col vento senza Clark Gable e Rossella O’ Hara, Cabiria senza Giulietta Masina. Casablanca senza Humphrey Bogart, Stanlio ed Olio senza Stan Laurent and Oliver Hardy.
Per di più in un marasma generale entro il quale i movimenti delle comparse si mischiavano e si sovrapponevano alle azioni essenziali dei protagonisti.
Nonostante ogni logica opposta teoria, la mia attenzione nella maniacale ricostruzione degli unici ed irripetibili momenti che in quel luogo particolare avrebbero cambiato la mia esistenza, era attratta principalmente dalla ricerca di fluidi impalpabili, poco importandomi se fossero stati prodotti da azioni o da emozioni.
Solo ad essi era rivolta la mia ricerca.
È facile dire io sono.
Più difficile è affermare sono stato.
Ipocrita fingere di sapere io fui… dove i puntini di sospensione ritardano, insieme alla frase che dovrebbe riguardare l’avvenuta certezza, le tante e troppe etichette poste sulla nostra incosciente infanzia da persone che forse hanno voluto più bene a noi che a se stesse, ma che certo hanno articolato le parole secondo i loro amorosi punti di vista e le loro soggettive affettuose immaginazioni.
Io fui un bimbo bravo e sincero, mi è stato detto sempre così, ma chi ci crede?

Per Aurora – volume quinto – Così fu PARTE 1 CAPITOLO DODICESIMA

Dedica

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così fu

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CAPITOLO PRIMO

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CAPITOLO OTTAVO

CAPITOLO NONO

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Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

seconda edizione

Version 5 | ID r99qmg

ISBN 9781471068423

Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Versione 4 |  ID r99qmg
Creato: 31 ago 2022
Modificato: 31 ago 2022
Libro, 100 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm)
Standard Bianco e nero, 60# Bianco
Libro a copertina morbida
Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00

Titolo Per Aurora volume quinto
Sottotitolo Alla ricerca di belle storie d’amore
Collaboratori Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Marchio editoriale Lulu.com
Edizione Nuova edizione
Seconda edizione
Licenza Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
Titolare del copyright Bruno Mancini
Anno del copyright 2022

E allora la bacia con violenza. Sulla bocca trattenendole la testa – come una bambola di pezza -, sul collo comprimendole le guance – come il morso per una cavalla-, sul seno acerbo – strappandole stoffe e bottoni.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo”.
E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo, Non farlo”.

Per Aurora volume quinto

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La menopausa di mia sorella

Così fu

Info: Bruno Mancini

Cell. 3914830355 tutti i giorni dalle 14 alle 23
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Per Aurora – volume quinto – Così fu PARTE 1 CAPITOLO UNDICESIMO

Per Aurora – volume quinto – Così fu PARTE 1 CAPITOLO UNDICESIMO

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Per Aurora – volume quinto – Così fu PARTE 1 CAPITOLO UNDICESIMO

CAPITOLO 11

Ieri.

Soltanto ieri sera alle 20 sono uscito frastornato dallo studio del Notaio Vittorio Tramontore con una chiave di ferro, che dovrò decidere se riconsegnargli, al massimo entro le 20 di domani, o trattenere assumendomi determinate responsabilità, e con
-«Una chiave, ideale, idonea a che si apra – lui ha detto – la corretta lettura per una parte ignota della sua vita: la parola “CAPIRE”.»
-«Una parte ignota della mia vita?»
-«Appunto».

Quindi, come ho accennato all’inizio, ho serrato le porte in attesa di muovermi verso i luoghi delle mie origini. Metaforicamente, praticamente, completamente.
Prima di partire da Roma avevo prenotato l’alloggio presso un albergo di costruzione recente situato sullo sperone sporgente al confine tra la baia di Cartaromana ed il promontorio di Punta San Pancrazio.
Una scelta non casuale ma voluta per il desiderio di una notte serena, di silenzio assoluto infranto unicamente dalla risacca, dagli sbuffi dello scirocco lungo le pendici della collina ricoperta da ginestre (ginestra, fiore amato dalla mia donna) in piena fioritura, e da qualche sporadico monotono rimbalzare dei richiami che forse i grilli, forse le prime cicale, forse i gatti in amore, forse gli uccelli notturni, forse i roditori, avrebbero utilizzato per riconoscersi e difendersi.
Aspettando che mi fosse servita la cena al tavolo sulla terrazza a strapiombo sul mare, ho chiesto un gin tonic ed un sacchetto di anacardi, mi sono seduto nell’angolo meno illuminato, ho allungato le gambe poggiando i piedi tra i ghirigori formanti il disegno della ringhiera a pelo del baratro, ho socchiuso gli occhi, mi sono chiesto fino a che punto sarei stato in grado di ricordare, ricostruire, collegare, ed ho così iniziato il conto alla rovescia che avrebbe mutato il senso della mia vita portandomi, mediante una consapevole decisione, adesso a scriverne, ed in seguito ad indirizzarmi verso conclusioni difficili, ma ancora una volta coerenti con i sentimenti ai quali non ho mai inteso rinunziare.
Il primo pensiero conseguente è stato “Un solo gin tonic, venti anni fa, avrebbe rappresentato poco più di una goccia per la smoderatezza della mia ingordigia”: banale, pur risultando fondato su una indiscutibile verità.
Una certezza, senza dubbio, come il sapere che la cascina della quale avevo ricevuto la chiave dal Notaio sarebbe stata rasa al suolo, con il semplice gesto di chi prema il pulsante collegato ad una carica di dinamite, all’indomani della eventuale riconsegna che mi ero impegnato a non effettuare oltre quarantotto ore.
Una certezza, senza dubbio, come il sapere che avrei potuto impedirne la demolizione accettando di assumermi la responsabilità della sua conservazione nelle esatte attuali condizioni, interni compresi, e non esclusa alcuna parte dell’arredamento, suppellettili, ninnoli e cianfrusaglie inclusi.
Banale, come pensare che essa, la cascina, non avrebbe avuto fretta d’essere riscoperta da me, visto che ciò comportava la non peregrina e grave ipotesi della sua immediata distruzione.
Intanto, ricordandola come la vedevo tornando di corsa da scuola, ho rimuginato la dolorosa eventualità che un mio rifiuto sarebbe stato determinante a che fossero aggredite, da chi sa quale modernismo, anche le tante collaterali composizioni scenografiche pregne di affinità con i nostri, a volte, intensi individuali turbamenti.
Nostri, cioè miei e di Gilda, poiché gli altri, tutti gli altri con i quali ho convissuto la parte della mia vita che si è svolta all’interno della cascina – ponendo tra loro, in primo piano mia madre morta e mio fratello gemello mai più tornato da quando partì per combattere le ingiustizie del mondo – ormai li consideravo definitivamente collocati nel mio passato.
Ho finto di estraniarmi, mi sono proposto nella veste professionale di un analista, mi sono interrogato ed ho abbozzato alcune risposte incerte e non esaustive.
“Mi si chiede l’autorizzazione a demolire l’icona della nostra fanciullezza?
O forse, meno semplicisticamente, mi si induce ad agire, non solo al fine di convalidare l’irreversibile distruzione materiale dell’ultimo baluardo che tiene insieme squarci del nostro passato, ma infine perché io esprima l’accettazione alla cancellazione della visione idealizzata composta da tutto quanto rimane di ciò che ci unì?
Io, inflessibile iconoclasta, presumo che non dovrei avere remore a consentire che sia demolito il totem.
Io, irriducibile sentimentale, sono invece certo che scatenerò feroci conflitti tra il mio cervello e la mia anima se, insieme al nostro feticcio, dovrò eliminare anche le mie emozioni. Purtroppo è così.
Già sento atroce il rimpianto ed un senso di colpa”.
Nel mio immaginario, la casa non aveva fretta d’essere riscoperta.
Anzi essa, pur avendo la precisa cognizione che prima o poi sarebbe stata aggredita da ogni moderna novità, continuava, discreta e dimessa, ad attendere, con serena rassegnazione i giorni a venire.
Ciò mi turbava nonostante l’evidente sofferenza causata dall’abbandono e dalla decadenza senza tempo di cui pativano parti importanti delle antiche opere effettuate per creare sì certo le forme estetiche del casolare, ma che in seguito erano divenute essenziali affinché si coniugasse la totale radicazione della cascina in tutto il luogo nel suo complesso attraverso quei profondi processi di formazioni emozionali, anche sentimentali e patetici, che sarebbero con fluidezza sfociati nelle nostre, di Gilda e mie, complici intese. Non dubitavo che il poggio verso il quale mi sarei recato stamattina alla prima luce del sole avrebbe potuto attendere. Io no.
Io soffrivo il malessere occulto del provvisorio.
Il frenetico pigiare del pulcino che tenti di uscire dall’uovo. Tra un sorso di gin tonic ed una boccata di sigaro Branca, ieri, l’approccio con il mio passato ha avuto inizio ricordando che ero nato tra la notte e l’alba dell’ultimo giorno di Aprile in un casolare ischitano aggrappato alla cresta calante dal Cimitero nuovo di San Michele fin giù all’altro Cimitero in disuso e che circonda, anzi abbraccia, da tre lati la chiesa di Sant’Anna nella baia di Cartaromana.
In piena guerra mondiale.
Eppure, l’impulso cognitivo del ritorno alle origini che mi aveva perseguitato durante ogni momento di pausa riflessiva, a partire da bambino, come potrebbe essere stato il voler stabilire il giorno della settimana della mia nascita, l’ora e la temperatura esterna, e finanche il cercare di evidenziare qualche caratteristica specifica del luogo o delle circostanze del parto o di altri simili particolari, già per me non era più sufficiente a soddisfare la tanta incertezza generale ormai intenta a braccarmi, dopo il colloquio con il Notaio, per spingermi verso un “CAPIRE” enigmatico ed estremamente offuscato dal tempo trascorso.
Ieri sera, in un abbozzo di confronto tra le varie teorie sul creato, affrontando il tema dell’ipotetico artefice, sono stato sul punto di confondere ulteriormente certezze e banalità se non si fosse intrufolata, spingendo per farsi spazio, la carcassa del grande dilemma, “CAPIRE”, foriera di altre ore insonni.
Ho ripreso un filo più logico, forzando i ricordi – e le considerazioni ad essi riferibili – a presentarsi seguendo una pur minima parvenza di progressione temporale i cui risultati potrei così sintetizzare:
“Ho conosciuto mia madre per tutto il tempo necessario a porle domande e riceverne risposte sempre più offuscate dal tempo, ma ugualmente sempre più disinibite in quanto favorite dalle nostre età ormai adulte.
Se da bambino alla mia curiosità lei rispondeva che mio fratello ed io eravamo stati trovati sotto lo stesso cavolo, oppure insieme nel nido di una cicogna in fondo ad un campo di grano, poi, da ragazzo, i suoi racconti facevano coincidere la mia nascita con sbarchi americani, bombardamenti, rifugi antiaerei, corse precipitose, scarsità di cibo, coperte avvolte sulla testa come unica difesa dalle schegge, pianti, dolori, morti, moribondi, feriti, vita precaria appesa al filo d’imponderabili accadimenti, si salvi chi può… è scoppiata una nave carica di munizioni… per l’esplosione un carro armato è stato scagliato fin quasi al Vomero… brandelli di carne umana dappertutto, tranne in America, tranne in America, tranne in America”.
Le fortezze volanti oscuravano continuamente il cielo sorvolando le nostre terre per compiere le loro “Missioni”.
E giù tonnellate e stratonnellate di bombe e stramaledette bombe per liberarci dal “MALIGNO” demone della dittatura.
Oggi in Iraq, ieri in Viet Nam, oggi ed ieri in Afganistan, domani in SIRPIA in IRASCA in CUBACHIA CAMBOSCINA.
Loro non hanno mai fatto uso di strumenti coercitivi verso la volontà popolare?
La pena di morte?
La schiavitù?
Le persecuzioni politiche?
Il razzismo?
Le sopraffazioni economiche?
Ghettizzazioni per sesso?
Presidenti corrotti?
Intrighi politici?
Schifezze?
Omicidi di stato?
Clero pedofilo?
Servizi segreti sputtanati?
Monica… Pompadau?
Marilin… Borgia?
Loro appartengono al nobile apparato democratico dei giusti giustizieri, dei fieri paladini, dei moralissimi moralisti sgancia tori dell’ENOLA GAY

6 Agosto 1945.

Ammirai tanto il coraggio del mio gemello Ignazio, quando ci lasciò – ormai posso dire per sempre -, dichiarando che andava a combattere in difesa dei popoli oppressi!”
-«Avvocato, la cena è servita».
-«Grazie, sbarazzi pure. Non ho più fame ma sete, tanta sete e tanta voglia di contare le stelle…
Mi porti un gin tonic, grazie».
Neppure adesso, a cosa fatte, sarebbe facile inserirla, Gilda, con connotati essenziali in quegli anni amorfi nei contenuti e stupidi nelle forme.
Dov’ero quando nacque?
Ero nella sala d’attesa, insieme a mia madre che andava e veniva freneticamente da una stanza all’altra portando bacili d’acqua calda e tovaglie bianche, oppure camminava nervosamente, rumoreggiando, quasi contando i passi a voce alta dall’ingresso all’ultima porta in fondo al corridoio… e lo ricordo tutto piastrellato per mezzo di mattonelle esagonali, poste inseguendo linee parallele alle pareti, che apparivano del tipico colore grigio ottenuto mescolando in acqua, ora lo so, calce, cemento, pozzolana, con l’aggiunta di un pugno di polvere raccolta intorno alle pareti prevalentemente di creta formanti i margini dei sentieri verso l’Eremo del Monte Epomeo.
C’era scritto SALA TRAVAGLIO.
Non conoscevo quel termine TRAVAGLIO, non mi spiegavo il nervosismo di mia madre, e neppure davo peso ai gridi che arrivavano, quantunque smorzati, ben oltre le sedie di plastica rossa poste in due gruppi di quattro intorno alle pareti della minuscola saletta fino a riempirla quasi del tutto.
Seduto, silenzioso, composto, leggendo l’ultima avventura di Topolino contro Gambadilegno, non mi era concesso sapere che mia madre si trovava lì, ed io con lei, nella attesa che la ”Signora Aurora”, la reale “Dominus” del paese, partorisse Gilda.
Gilda, da lattante non era stata la più carina neonata della maternità, da bambina non veniva vezzeggiata come la più bella figliola della famiglia “Dominus”, da signorinella, alta e smunta, non richiamava gli sguardi appetitosi dei maschietti del rione.
Da quando, e come fosse avvenuto in lei il cambiamento fisico che mi dava i brividi finanche nel ricordo, non mi sembrava di averlo mai esaminato.
Eppure, a ripensarci, ero stato certo importante durante tutta la sua vita, dalla culla alle calze a rete, ma anche disperatamente incapace di percepire i flussi di attenzioni tipici delle diverse aspettative connaturate alla sensibilità delle sue differenti età, e ciò poiché li lasciavo sempre rimbalzare sugli schermi protettivi che alzavo a difesa delle mie convinzioni.
Dovrei, ma non posso.
Inventarmi una ragione per eludere il bisogno d’entrare nel covo dei ricordi sbiaditi perché lasciati, da soli, alle intemperie cadenzate secondo il monotono rincorrersi di stagioni assolutamente uguali da un anno all’altro, alle muffe nercrofobe degli insetti e dei piccoli animali – roditori, lucertole, bisce – vissuti tra le pieghe dei mobili e dei lumi e dei ninnoli sulle credenze così come nei massicci cassetti
mai chiusi a dovere, alle polveri screanzate venute su da chi sa dove e penetrate attraverso gli interstizi tra gli infissi e tra le canne fumarie dei camini: memorie abbandonate come figli tra i cassonetti dei rifiuti.
Dapprima per scarso amore e poi per il collare di ferro che impone al vinto il vincitore.
Potrei, ma non voglio.
Scontrarmi con la mia coscienza ed accettare l’inizio e la fine, il guado e la stenosi, la fiera ribellione e il docile, accattivante ozio, tutti i passaggi segreti, ogni caduta nei pozzi dei desideri, miracoli, tradimenti, egoismi; ammettere, appunto, l’inizio e la fine dei giorni e delle notti che io solo conosco io solo ammansisco, io solo uccido.
Il nocciolo duro che respinge le mie pavide titubanze e mette a nudo l’inconsistenza delle mie aleatorie prese di coscienza, il nerbo crudele che mi fustiga verso lo spazio antico e noto, contro spezzoni di azioni già fatte, nel buio visibile oltre il portone di legno massiccio, il sibilo lancinante che dalla mia testa m’impone di andare per “CAPIRE”, è il dubbio.
Lo stesso dubbio.
Sempre lo stesso dubbio.
Sempre lo stesso dubbio di quando partii.
Sempre lo stesso dubbio di quando partii con un sacco vuoto di cose ma pieno di speranze.
Ormai è l’alba, la terra non torna indietro.
Il sole attende immobile.

Per Aurora – volume quinto – Così fu PARTE 1 CAPITOLO UNDICESIMO

Dedica

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CAPITOLO PRIMO

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Modificato: 31 ago 2022
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Libro stampato: A5 (148 x 210 mm)
Standard Bianco e nero, 60# Bianco
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Titolo Per Aurora volume quinto
Sottotitolo Alla ricerca di belle storie d’amore
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ISBN 9781471068423
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Anno del copyright 2022

E allora la bacia con violenza. Sulla bocca trattenendole la testa – come una bambola di pezza -, sul collo comprimendole le guance – come il morso per una cavalla-, sul seno acerbo – strappandole stoffe e bottoni.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo”.
E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
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Per Aurora – volume quinto – Così fu PARTE 1 CAPITOLO DECIMO

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CAPITOLO 10

Mercoledì, ieri, puntualissimo, alle ore 18,30 ho fatto suonare il campanello, dlin dlon, della porta a due battenti entrambi impreziositi da vetri satinati con la riproduzione di uno stemma incomprensibile affiancante l’ideogramma GT (Giovanni Tramontore, padre defunto dell’ormai anch’egli anziano Notaio Vittorio dal quale ero atteso).
Non più di due minuti sono trascorsi dal momento della mia presentazione alla segretaria, Elisa, ed il suo invito a seguirla nello studio del Notaio Vittorio.
Tutto intorno mi era molto familiare, a partire dai movimenti a piccoli veloci scatti di Elisa comunque sempre armoniosi e non spigolosi, e poi per la forma a losanga del pavimento di cotto rosso pompeiano le cui antiche e consunte piastrelle venivano lucidate di certo ogni giorno con le cere più tradizionali, e finanche nel corridoio fiocamente illuminato da lampadari di ottone brunito a tre bracci sui quali erano situati porta lampade di ceramica che inglobavano lampadine a filamenti di tunghsteno da 25 watt in disuso da almeno venti anni.
-«Avanti, prego, venga avanti Avvocato Di Frigeria.
Scusi se resto seduto: mi perdoni… ho qualche acciacco dovuto all’età!
Lei si accomodi prego.»
-«Notaio… piacere di rivederla dopo tanti anni».
La conversazione è proseguita stancamente, quasi con impaccio, passando rapidamente da un banale generico convenevole ad una affettuosa considerazione verso alcuni personaggi locali che entrambi avevamo conosciuto, e durando un tempo appena sufficiente a dare una parvenza di familiarità al nostro incontro.
Elisa, così come discretamente si era allontanata di qualche passo al momento del mio ingresso, ugualmente, con atteggiamenti per niente evidenti, ad un cenno del capo del Notaio ha posato sulla scrivania – proprio al centro delle sottili braccia che egli vi teneva poggiate fino al gomito – una carpetta scura, molto scura anche in ragione dei tanti anni che ne avevano ingrigito l’originario colore.
Sul bordo alto della cartella, perfettamente conservata, senza la minima grinza, ma apparentemente vuota, si poteva leggere l’intestazione della pratica.
-«Non sono molti i casi di cui mi sono occupato durante il lungo cinquantennio della mia professione che hanno richiesto da parte mia un così grande impegno morale.
Controllare che Lei, Avvocato, fosse rimasto scapolo, e comunque privo di una relazione affettiva continuativa, per i venti anni successivi alla data che può leggere sulla carpetta … a proposito… auguri posticipati per il suo compleanno… di un solo giorno vero?… dicevo… sì mi creda, è stato un impegno tanto penoso quanto necessariamente discreto e responsabile, ma non avrei per nessun motivo potuto eludere la decisione della donna che mi aveva affidate queste sue volontà.
Venti anni è il tempo in cui si prescrive ogni reato e si perdona ogni peccato!
Ella volle, venti anni fa, che Lei, ma solo a ben definite e chiare ed inequivocabili condizioni, ora abbia la possibilità di “CAPIRE”.
Proprio così mi disse e scrisse, capire in lettere maiuscole.
Non si tratta in definitiva di un lascito che porti indiscussa consistenza economica a Lei che ne è il beneficiario, quantunque del resto, difficilmente un qualche bene tangibile, per quanto ho appreso durante le mie investigazioni, potrebbe mai essere tanto consistente da risultare per Lei interessante.
La nostra è una piccola comunità, inutile che glielo rammenti, la quale fonda sull’onestà e sulla rettitudine, piuttosto che sulle disponibilità economiche e finanziarie, sia l’andamento della socialità che essa stessa si è imposta, e sia la rispettosa continuità dei rapporti interpersonali.
L’onore, è questo ciò che vale qui.
Gradisce un caffè?
Certo è casalingo, ma Elisa se la cava ottenendo buoni risultati… a volte!»

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E allora la bacia con violenza. Sulla bocca trattenendole la testa – come una bambola di pezza -, sul collo comprimendole le guance – come il morso per una cavalla-, sul seno acerbo – strappandole stoffe e bottoni.
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CAPITOLO 9

Mercoledì ore 12: “Andiamo, andiamo, andiamo.
Perché? Perché? Perché?
Oggi è il mio compleanno”.

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CAPITOLO 8

Mercoledì ore 9: “Oggi le figlie e i figli di puttane che vanno in chiesa, non a supplicare perdono, ma per sentirsi importanti nel rapporti con l’eterno (come dire voler corrompere la forza del destino, sottomettere il dio al loro interesse), loro, i santarelli amici di merende, le femmine tradite e traditrici, i miserabili che smerciano cocaina eroina sballina mortina e sigarette dinanzi alle questure, ai palazzi dei tribunali, agli ingressi dei giardini pubblici, ai portoni dei vigili comunali, del fuoco, del mare, della merda, oltre che tra i banchi delle scuole delle metropoli meridionali, delle scuole di ogni grado di tutti i rioni di tutte le rimbecillite metropoli meridionali di tutte le nazioni, oggi le figlie e i figli di puttane che impazziscono se non possono mostrare le chiappe adipose, le zizze gualdrappate, le zampe microbiche, le cosce microscopiche, le vene varicose, le voci stridule e sguaiate, i coltelli a molla, girando in bella mostra tra le boutique ed i pub schiamazzanti lungo tutta la viuzza Riviez ed il largo Maroz del quartiere top secondo Novella 300, oggi, uno o alcuni figli di puttane in attività nella zona in cui vivo ha, o hanno, rubato la mia sgangherata bicicletta parcheggiata in via Coppi 27.
Aiuti non ne voglio.
Mi basterebbe saperli spiaccicati contro un muro.
Darei in cambio 100 rupie”.

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PARTE 1

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CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SETTIMO

CAPITOLO OTTAVO

CAPITOLO NONO

CAPITOLO DECIMO

CAPITOLO UNDICESIMO

CAPITOLO DODICESIMO

CAPITOLO TREDICESIMO

PARTE 2

CAPITOLO 1

CAPITOLO 2

Poesia sporca

Poesia sporca

Per Aurora – volume quinto – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

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Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

seconda edizione

Version 5 | ID r99qmg

ISBN 9781471068423

Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Versione 4 |  ID r99qmg
Creato: 31 ago 2022
Modificato: 31 ago 2022
Libro, 100 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm)
Standard Bianco e nero, 60# Bianco
Libro a copertina morbida
Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00

Titolo Per Aurora volume quinto
Sottotitolo Alla ricerca di belle storie d’amore
Collaboratori Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Marchio editoriale Lulu.com
Edizione Nuova edizione
Seconda edizione
Licenza Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
Titolare del copyright Bruno Mancini
Anno del copyright 2022

E allora la bacia con violenza. Sulla bocca trattenendole la testa – come una bambola di pezza -, sul collo comprimendole le guance – come il morso per una cavalla-, sul seno acerbo – strappandole stoffe e bottoni.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo”.
E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo, Non farlo”.

Per Aurora volume quinto

seconda edizione

Racconti

La menopausa di mia sorella

Così fu

Info: Bruno Mancini

Cell. 3914830355 tutti i giorni dalle 14 alle 23
[email protected]

 

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CAPITOLO 7

Lunedì ore 19: “Invece, ogni volta che Elisabetta esce dal suo tugurio regale, non bastano migliaia di spiriti benigni per esaudire gli ordini dei suoi gesti”.

Per Aurora – volume quinto – Così fu PARTE 1 CAPITOLO SETTIMO

Dedica

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così fu

PARTE 1

CAPITOLO PRIMO

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CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

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CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SETTIMO

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E allora la bacia con violenza. Sulla bocca trattenendole la testa – come una bambola di pezza -, sul collo comprimendole le guance – come il morso per una cavalla-, sul seno acerbo – strappandole stoffe e bottoni.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo”.
E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo, Non farlo”.

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CAPITOLO 6

Lunedì ore 15: “Quando Aladino era stimato più di una cicca, usciva, in tutto, solo tre volte dalla lampada per esaudire i desideri del Padrone”.

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CAPITOLO PRIMO

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CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SETTIMO

CAPITOLO OTTAVO

CAPITOLO NONO

CAPITOLO DECIMO

CAPITOLO UNDICESIMO

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E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
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CAPITOLO 5

Domenica ore 10: “Il risveglio non è la replica della veglia”.

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CAPITOLO 4

Sabato: “L’utopia dei bestemmiatori incalliti è la mamma santa che nessuno di loro ha, è il lupetto furbetto agnostico, è il padre falegname onnisciente”.

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CAPITOLO 3

Venerdì ore 18: “I coltelli non nascono da una coltellata”.

 

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“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo”.
E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
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CAPITOLO 2

Ieri.

Soltanto ieri è stato il mio presente.
-«Va bene, ci sarò».
Così risposi all’invito del Notaio Tramontore che si era premurato di notiziarmi del giorno e dell’ora in cui avrebbe dato lettura di un lascito in cui, a suo dire, io ero annoverato tra i beneficiari.
Ricordo bene, fu lo scorso venerdì pomeriggio alle undici di mattina e per la ressa delle incombenze del fine settimana non tentai neppure di proseguire il colloquio chiedendogli da parte di chi provenisse il bene o informandomi di quale natura fosse il dono.
-«Va bene, ci sarò.»
Appuntamento per il mercoledì successivo – ieri -, alle 18,30 in via Nuova Cartaromana ad Ischia.
Lasciai l’appunto a Geltrude, smisi di pensarci e ripresi a sublimarmi ai confini dei sermoni laici, e ad impegnarmi per rendere ragionevoli gli eccessi comportamentali di frotte di miei assistiti, in parte piagnucolanti, urlanti, irritati per non gradire improvvise o temute truffe economiche provenienti da loro clienti – fornitori – enti – amici e personaggi comunque orbitanti intorno agli affari di cui si occupavano, ed in parte, questa ultima di gran lunga, maggioritaria, composta da storici frequentatori sollazzanti in ragione dei buon esiti previsti per le rivendicazioni che avevano affidato alla professionalità del mio studio legale.
Certo idealizzavo, ma senza smettere, con intensità e concretezze molteplici e dissomiglianti, in momenti differenti dei giorni che seguirono, di volere il mio tempo e di dubitare.
“E se non fosse questo?” mi chiedevo dapprima, e poi proseguivo traendone valutazioni simili a “Dovrei scorrere le clessidre ateniesi romane egiziane cretesi micenee etrusche
cinesi spartane. Babilonesi.
L’america dei guappi dal pugno di ferro.
L’Europa dei sudditi del pozzo pieno.
Le folle africane prive dei nostri rimedi, ma vittime delle nostre opulenze. Arabi affaticati dal rispetto per gli insegnamenti scritti nei versetti dei loro libri sacri e dalla concomitante caccia agli infedeli.”
Oppure continuando amareggiato “Non è questo il mio mondo. Questo è solo un mondo di pazzi che impone, sottomette ed infine costringe falde enormi dell’umanità a scannarsi – dovrebbe essere incredibile – non solo per la necessaria sopravvivenza proveniente da un tozzo di pane, non solo per il superfluo benessere ottenibile da un litro di petrolio, ma finanche, anzi con maggiore cruenza, nella guerra senza regole battagliata per accumulare patrimoni che nessuno riuscirebbe mai a godere neppure in infinitesima parte (tante ville, tanti soldi, tanto tutto) da vivo o da morto su questa terra.
Se non fossimo folli, useremmo i poteri per altri obiettivi.
I neri valgono come i bianchi ed i bianchi valgono come i neri è un’affermazione quasi accettata, anche a prezzo di dolorosi storici sacrifici ed amare sconfitte, da tutti i neri e da tutti i bianchi, ma non si ottiene lo stesso consenso se si afferma che i ricchi e i figli dei ricchi hanno gli stessi diritti dei poveri e dei figli dei poveri.”
E quasi sempre concludendo con certezze e domande di arrendevole impotenza ”Occorreranno nuovi secoli e nuove religioni e nuovi eroi. E neppure in chimerica lontananza si avvista il freno capace di modificare le penose situazioni di disuguaglianze sociali, economiche e culturali che ci pervadono impregnando di egoismi i nostri atti, e se non è stata ancora assolutamente scalfita da moltitudini ribelli neanche l’apparentemente non eludibile «globalizzazione» – malvagia nelle intenzioni e perversa nei risultati -, fino a quando i Caino continueranno ad uccider gli Abele?”

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“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo”.
E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
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Così fu

PARTE 1

CAPITOLO 1

Ieri.

Soltanto ieri.
Finalmente, ho carpito dalle grinfie avide dei mercenari acquattati in ogni dove al soldo d’invadenti multinazionali, i tempi ed i modi per una voluta prigionia, ed ho serrato le porte nell’attesa di muovermi verso i luoghi delle mie origini.
Metaforicamente, praticamente, completamente.
L’assalto continuo, attraverso proposte indicanti modi d’essere adeguati agli inutili prodotti che i padroni universali del commercio e dei servizi inviano a pioggia di grappoli dai contorni impalpabili come foschia estiva di primo mattino, assume virulenze epidemiche una volta giunto a contatto con le blande aspirazioni di tranquillità e di serena assuefazione al ritmo quotidiano proprie di esistenze vissute senza sprechi e prive di inutili orpelli. Semplici, essenziali, autonome.
Le menzogne ballerine, create ad immagine di lusinghe dai loro maghi prezzolati, saltellano allegramente ben oltre ogni perdonabile entusiasmo, frattanto che abbattono ostacoli a forma di evanescenti birilli ed ideologie di carta straccia, male, o per niente, supportate da nervose manovre atte a ripristinare condivisibili pretese di libertà individuali.
Senza ritrosie, in ragione della forza amorale ricevuta dalle loro strutture interdipendenti, superano, con vigliacca disinvoltura gli specifici spessori delle singole vite incontrate lungo le vie che percorrono.
Ne deriva una complessa organizzazione della socialità immemore dei suoi stessi scopi istitutivi.
Mentre srotola piacevolezze esistenziali frammiste ad essenziali bisogni cognitivi ed impellenti necessità comunicative, essa, la falsa dignità universale – quella degli uomini invisibili oltre le cortine delle organizzazioni finanziarie, quella degli innominabili padroni del vizio e della schiavitù dei deboli, quella dei tizi in doppio petto sproloquianti in pubblico senza cuori brucianti all’interno del torace per giustizia ed uguaglianza, quella di tutti gli uomini animali da sé stessi assurti a mortificanti auto glorificazioni, quella dei nuovi Dei, meschini e blasfemi – essa la falsa dignità universale accaparra, tutto intero, senza pentimenti, l’indivisibile legame tra le vite ed i singoli uomini.
Non ero convinto che fosse sufficiente, ma limitare il raggio di azione dei miei giorni futuri nel perimetro, orto compreso, di una vecchia casa colonica, mi era apparso il sistema più agevole per tentare la metempsicosi spirituale che intendevo costruire tra il mio passato ed il mio futuro.

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Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO SESTO

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CAPITOLO 6

Il racconto è finito, ma voi, per favorire la mia sorte, potreste anche immaginare che il totano poeta, avvinghiata – come ho detto – mediante numerosi intrecci del suo robusto tentacolo la cima per messo della quale rimanevo legato al pallone, si fosse attardato nel porre in atto ulteriori azioni di agganci, distratto, sia dalla vanità di rendere partecipe la pantegana al compiacimento procuratogli dal vedermi dibattere nel tentativo di sfuggirgli, e sia, a maggior ragione, dall’intento, a questo punto certamente palese, di ottenere le grazie della ormai affascinata compagna d’avventura e, con esse, una più che tangibile e materiale gratificazione per l’astratta e cerebrale magnificenza della sua cultura.
Potreste, e mi fareste cosa grata, anche aggiungere che io, approfittando del suo sublime peccato d’orgoglio, come Zeus nei confronti di Bellorofonte, gli avessi ficcato, finalmente, il tridente tra gli occhi ed il cervello, utilizzando tutta l’energia che avevo ancora disponibile e, quindi, sganciata con un rapido movimento la cintura ad apertura automatica – per mezzo della quale ero trattenuto in suo possesso attraverso la sagola legata alla boa -, mi fossi sottratto, con un deciso colpo di pinne, alla presa mortale di quella mimetica ipnotica bestia partorita dalla mia fantasia, tornando in tal modo… a rivedere il sole e Gilda che mi attendeva in lacrime sulla riva scrutando l’orizzonte (il nostro?), preoccupata per il biglietto trovato al risveglio accanto al cofanetto del trucco, ed in pena per la lunga attesa determinata dalla mia estrema immersione nel profondo abisso della solitudine e della poesia.
Grazie.

FINE

Per Aurora – volume quinto – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Dedica

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così fu

PARTE 1

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SETTIMO

CAPITOLO OTTAVO

CAPITOLO NONO

CAPITOLO DECIMO

CAPITOLO UNDICESIMO

CAPITOLO DODICESIMO

CAPITOLO TREDICESIMO

PARTE 2

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Poesia sporca

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Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

seconda edizione

Version 5 | ID r99qmg

ISBN 9781471068423

Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Versione 4 |  ID r99qmg
Creato: 31 ago 2022
Modificato: 31 ago 2022
Libro, 100 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm)
Standard Bianco e nero, 60# Bianco
Libro a copertina morbida
Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00

Titolo Per Aurora volume quinto
Sottotitolo Alla ricerca di belle storie d’amore
Collaboratori Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Marchio editoriale Lulu.com
Edizione Nuova edizione
Seconda edizione
Licenza Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
Titolare del copyright Bruno Mancini
Anno del copyright 2022

E allora la bacia con violenza. Sulla bocca trattenendole la testa – come una bambola di pezza -, sul collo comprimendole le guance – come il morso per una cavalla-, sul seno acerbo – strappandole stoffe e bottoni.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo”.
E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo, Non farlo”.

Per Aurora volume quinto

seconda edizione

Racconti

La menopausa di mia sorella

Così fu

Info: Bruno Mancini

Cell. 3914830355 tutti i giorni dalle 14 alle 23
[email protected]

 

Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO QUINTO

Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO QUINTO

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO 5

Il totano:
-«Il nome mio tutti lo sanno: “Ignazio”.
Ignazio di Frigeria e d’Alessandro.
Ignazio di Frigeria e d’Alessandro con cuore di poeta.
Mi hanno sprofondato in questo abisso per aver mancato di rispetto ad una deità artificiale soprannominata El Tibe o El Cibe o qualcosa di simile.
Avevo cantato i pastori dell’Ellade in guerra, i fieri naviganti fuggiti dalle troiane mura, l’inferno e il paradiso (il purgatorio mi venne meno bene), Lucia la santarella, il cinque maggio, il piccolo Lord, Cappuccetto rosso e Biancaneve.
Tutto bene.
Applausi, complimenti, auguri, riconoscimenti, recensioni, premi ecc. ecc.
Fino a quando… se ci penso mi ficco il terzo tentacolo da destra nel…
Fino a “Il furto della foto”.
Chi poteva pensare che sarei diventato una specie di mignotta solo per aver deriso in quel racconto un tappetto umano in brache bianche e maglietta azzurra!
Infamie e vituperi, offese e minacce, e tutti i contatti professionali cassati, distrutti, annullati.
Amici, spariti.
Conoscenti, neanche più un saluto.
La condanna universale.
Nessuna gratitudine sconfigge mai il danno di un’ultima minima offesa.
Il mio apporto alla gioia, non effimera, per una emozione continuamente dettata finanche a distanza di secoli attraverso solo parole (a volte tradotte in un altro idioma), e poi i casti baci che ho ricevuto dalla cultura, e poi l’essere o l’essere stato pensieri, sentimenti, amori per tutti e di nessuno, cioè tutta la linfa di me poeta, io poeta, travagliato pazzo visionario maledetto stramaledetto stramaledettissimo poeta, tutto ciò non ha retto lo scontro neppure con un bonario scherno verso la fotografia di un Pulcinella in mutande soprannominato El Sibe o El Bibe o qualcosa di simile.
Detto in un plurale maiestatis che a me si conviene, parafrasando un poeta di terra, potrei dire che per noi scrittori non sempre il tempo la beltà conserva.
Tanti anni sono trascorsi da quando gli opercoli dei miei nuovi tentacoli a mala pena raggiungevano il diametro di una capocchia di spillo.
Giocherellavo ad inserirvi prima un granello di sabbia, poi, con il trascorrere di nuove lune e nuovi soli, col tempo, una briciola della conchiglia che avevo mangiato a colazione, ed oggi, impegnandomi riesco a riempirli con bestioni della tua taglia.
E che dire della capacità di trazione di questi super tentacoli che io chiamo sagole viventi!
Altro che idee, queste nerborute propaggini sì hanno valore!
È nella forza il valore dell’essere: non esiste l’anima.
Se anche così non fosse, l’anima non basterebbe comunque, e certo non sarebbe in alcun modo determinante nello stupido inconcludente processo di evoluzione che condiziona, con una spirale infinita, le ambizioni di tutta la città umana.
Come i sentimenti, le ideologie, le filosofie, gli amori astratti.
Tocca, tocca, tutta una corda vigorosa, come una liana.
Mi hanno parlato delle liane sugli alberi, me ne hanno raccontate di storie.
Vi si appendevano per la coda, come la tua, animali considerati progenitori degli umani (i quali sono gli animali per eccellenza, le vere bestie).
Tocca palpeggia.
Se vuoi azzanna.
C’era una barca, l’estate scorsa, una barca lunga tre ciuffi di posidonie.
Ne ho bloccato l’ancora con un solo tentacolo e l’elica, quell’aggeggio che gira rumoroso sotto il culo della poppa, ruotava e strideva, ma il natante lungo un’aiuola di posidonie non si spostava di un’onda.
Proprio come sto facendo con questo umano rompicoglioni.
Vedi, ho intrecciato un cirro con la sagola del pallone boa.
Di solito la corda non è tanto vicina al pescatore.
Non è a portata di tentacolo.
Questo è un sistema diverso.
Mah!
Nessuna cima di tutte quelle che ho incontrato nei miei innumerevoli confronti con gli umani era allestita con questo sistema.
Guarda, guarda, c’è un piombo che la spinge nel basso agevolando involontariamente la mia presa.
Nella composizione classica noi non riusciamo ad agganciarla perché è stesa alle spalle del sub, verso l’alto in direzione delle superficie del mare.
Sì, ora che ci penso, una volta… sì una volta ho notato un altro umano utilizzare questo sistema con il piombo a scorrere sulla corda… ma lui fu fortunato… non mi vide… o se mi vide… fuggì a gambe levate.
Forse è stato lui a consigliare di costruire questa stronzata.
Guarda, guarda come questo qui sbatte piedi e braccia.
Sbatte piedi e braccia, sbatte ma non si sposta di un’acciuga.
Scommetto che questo sub sta ricordando quando la sorella, a quaranta tempi dalla nascita, entrò in menopausa, e la rivide gioiosa come chi s’’immetta nell’androne della stazione ferroviaria dalla quale inizierà il viaggio più suggestivo di tutta la vita: per lei il viaggio verso la sessualità libera e disinibita.
Lei non aveva capito, lui non gliene aveva mai parlato, ed io sciupo il mio tempo prezioso di poeta assoluto nell’insulso tentativo di fare intendere a te, lercia pantegana, indiscusso simbolo di libera cortigianeria, che le beltà dei giorni in cui ciascuno di noi fummo per la prima ed unica volta innamorati, cioè felici, quasi mai si accrescono insieme al diametro dei nostri muscoli od alla forza dei tentacoli che sviluppiamo.
Quasi sempre il vero danno irrimediabile scaturisce dal non aver avuto la preveggenza di conservarle, quelle irripetibili emozioni, nella teca dell’ottimismo, affinché, in seguito, le si possano aprire e riaprire, e godere o rigodere, e amare e riamare, ogni volta che inutili silenzi non si materializzino per aggiungere schizzi scuri al mare profondo di sopraggiunte insidiose solitudini.
Purtroppo, le beltà dei giorni in cui ciascuno di noi fummo per la prima ed unica volta innamorati, cioè felici, con il passare del tempo, considerate ormai inutili, come il mare profondo, finiscono irrimediabilmente rigettate nel mare profondo del superfluo.
Ed allora, io dico beata te, cara pantegana!
Beata te, malcelato incubo notturno per adolescenziali peregrinazioni nei bassifondi innominabili d’invereconde sensazioni, beata te, finché continui a tacere, mentre io mi affatico a nutrirti con le distillate essenze dei miei tormenti. Beata te che poco sai, poco pensi, e poco sei.
Beata te zoccola puttana!
Evviva.
Ed ora basta convenevoli, fatti toccare il culo e baciami il cervello.»

Languida menopausa
del mio furente
Ingarbugliato orgoglio,
inflaccida frange pendule
sconnesse
di una tardiva certezza.
Dal cavallo alato di Bellorofonte
spodesti il tardo
maculato arrivo,
senza condanna
con dolce eutanasia.
Assegno la coda di rospo,
ricotta pregna di canditi,
al tonfo dell’io bambino,
un botto, spiaccicato sulla torta.

Pegaso.
Si fa derivare il suo nome P h g h, ossia sorgente, perché era nato alle fonti dell’Oceano, cioè all’estremo Occidente, dove Perseo aveva ucciso la Gorgonie Medusa.
Altre versioni lo fanno nascere dallo stesso collo reciso della Medusa, oppure dalla Terra, fecondata dal sangue del mostro. Compare in numerose leggende.
Perseo lo cavalcava quando andò a liberare Andromeda dallo scoglio su cui era stata esposta in sacrificio ad un mostro marino.
In seguito fu trovato da Bellorofonte, l’eroe nazionale di Corinto, che lo domò e con lui partecipò a gloriose imprese.
Questi era figlio di Poseidone e di una figlia del re di Megera, sul cui nome le versioni sono diverse.
Avendo ucciso accidentalmente un uomo, dovette lasciare la sua città e andare dal re Preto perché lo purificasse.
La moglie di questi si innamorò di lui e, essendo stata rifiutata, raccontò al marito di essere stata insidiata.
Re Preto, non volendo vendicarsi personalmente, perché non era permesso uccidere il proprio ospite lo mandò dal suocero Iobate con un messaggio, nel quale gli si chiedeva di uccidere il latore della missiva.
Letta la lettera, Iobate chiese a Bellorofonte di uccidere la Chimera, un mostro metà leone, metà drago, che sputava fiamme, convinto che ne sarebbe uscito sconfitto.
Ma Bellorofonte montò il cavallo alato Pegaso, piombò dall’alto sulla Chimera e la uccise in un sol colpo.
Iobate gli affidò allora una successione di altre imprese impossibili, dalle quali l’eroe uscì vittorioso. Iobate si convinse quindi dell’innocenza dell’eroe e ne ammirò le qualità al punto da dargli in moglie la propria figlia. Inorgoglito, Bellorofonte volle salire all’Olimpo sul suo cavallo alato, ma fu precipitato sulla terra da Zeus, come castigo del suo peccato d’orgoglio.

Per Aurora – volume quinto – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

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Dedica

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così fu

PARTE 1

CAPITOLO PRIMO

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CAPITOLO OTTAVO

CAPITOLO NONO

CAPITOLO DECIMO

CAPITOLO UNDICESIMO

CAPITOLO DODICESIMO

CAPITOLO TREDICESIMO

PARTE 2

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Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

seconda edizione

Version 5 | ID r99qmg

ISBN 9781471068423

Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Versione 4 |  ID r99qmg
Creato: 31 ago 2022
Modificato: 31 ago 2022
Libro, 100 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm)
Standard Bianco e nero, 60# Bianco
Libro a copertina morbida
Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00

Titolo Per Aurora volume quinto
Sottotitolo Alla ricerca di belle storie d’amore
Collaboratori Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Marchio editoriale Lulu.com
Edizione Nuova edizione
Seconda edizione
Licenza Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
Titolare del copyright Bruno Mancini
Anno del copyright 2022

E allora la bacia con violenza. Sulla bocca trattenendole la testa – come una bambola di pezza -, sul collo comprimendole le guance – come il morso per una cavalla-, sul seno acerbo – strappandole stoffe e bottoni.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo”.
E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo, Non farlo”.

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La menopausa di mia sorella

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Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO QUARTO

Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO QUARTO

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Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO 4

Gli ero ormai talmente vicino che la mia maschera faticava a rendere completamente visibile l’estensione dei suoi tentacoli.
Comunque indirizzassi lo sguardo, una parte della sua mole usciva dai bordi della mia pinguino nera.
Sapevo bene che in situazioni di estrema tensione, nelle rischiose apnee, gli attimi valgono tutto, eppure, almeno per una frazione di tempo mi abbandonai all’impressione d’essere spettatore di una partita di tennis, seduto in linea con la rete, intento a seguire con continui spostamenti della testa il percorso della palla.
Di reale c’era il suo immobilismo, d’irreale la sua immobile attesa. Tra la forza della sua indole, forgiata dalla lunga esperienza, che imponeva alle sue caratteristiche naturali di trattenere finanche lo scorrere dell’acqua negli opercoli per sfuggire nascondendosi, e la potenza della sua smisurata, prorompente, devastante stazza che le chiedeva di occultarsi scappando, la preda continuava a privilegiare la prima congettura, anche se, per tale scelta, il vetro plastificato della mia maschera nera, durante il progressivo avvicinamento, doveva apparirle come la bocca spalancata del Terrore e del Male. Io, la mia faccia, il Terrore!
Quale percorso aveva condotto la mia vita verso e fino alla mortale sfida con quella icona bestiale?
Scompaginare il certo e rumoroso declino di quel tragitto in cui mi riconoscevo felice tuffandomi nei silenzi profondi?
Offuscare un prosieguo del mio viaggio esistenziale temuto troppo simile al decadente simbolismo dell’immagine di mia sorella, seduta con un gatto sulle ginocchia, nell’atto di tagliarsi le unghie, dopo la menopausa, per meglio palpeggiare la creta, proponendosi, pulsandosi in un nuovo mondo fatto di terracotta e di ceramiche?
Gilda?
Che c’entra Gilda?
Gilda?
Che c’entra Gilda?
Gilda si crogiola sulla spiaggia con le tette al sole, voluminose, le tette, tanto da costringere a sbirciarle anche sfigati esistenzialisti un po’ gay e un po’ narcisisti durante andirivieni senza senso che lei, anima candida, neppure nota.
Non è così?
Che cosa non è così?
Crogiola, spiaggia, sole, tette, voluminose, sbirciare, sfigati, esistenzialisti, gay, narcisisti, andirivieni?
Non è questo?
Che altro allora?
Bum… la macchia nera che prima era ondeggiante tra i tentacoli del mostruoso colosso posato sul fondo marino gli schizzò, con lo scatto breve e goffo di una pantegana, verso il testone immobile nella concentrazione mimetica.
C’è tutto un modo a noi sconosciuto di comunicare tra animali non solo della stessa specie, ma anche di razze profondamente dissimili, finanche, credo, tra uccelli e pesci o tra rettili e pesci o tra molluschi e mammiferi.
IL totano è un mollusco.
Simile al polpo.
La pantegana è un mammifero.
Anch’essa nel suo ambito, spesso, sfugge dai pericoli restando ferma acquattata in un angolo, il più buio possibile, il più profondo possibile, dalle pareti il più possibile di colore scuro come la sua pelle, la sua coda, la sua testa.
Una maniera efficace almeno quanto lo è lo sfrontato mimetismo dei cefalopodi, ma che essa spesso, d’improvviso abbandona sfruttando, con la sorpresa della fuga in una direzione imprevista, l’attimo in cui il suo nemico si blocca per elaborare e decidere la modalità dell’attacco.
Se esce indenne dal primo scatto, è salva.
La pantegana, abbandonato l’insicuro riparo, fuggendo, balzò sul capo di quell’immenso totem e forse gli disse…. Gilda?
Che c’entra Gilda?
Perché penso a Gilda?
Gilda?
Che c’entra Gilda?
Perché penso a Gilda?
Gilda si crogiola sulla spiaggia con le tette al sole, voluminose, le tette, tanto da costringere a sbirciarle anche sfigati esistenzialisti un po’ gay ed un po’ narcisisti durante andirivieni senza senso che lei, anima candida, neppure nota.
È vero.
Ne sono sicuro.
Sono… si… nooo…
Salgo a vedere.
Tanto bastò.
Il totano ne aveva già approfittato per mettere in moto un tentacolo nella mia direzione.
Salgo a vedere.
È troppo tardi?
Meglio, così…

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Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO TERZO

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CAPITOLO 3

Quella mattina mi ero immerso, era inizio settembre, con il sole delle prime ore non ancora velato dalla parte basa dell’atmosfera. Esatto, mi ero immerso.
Mi ero immerso e basta.
Contava poco come, quasi niente dove, ancora meno per cosa, assolutamente non mi chiedevo perché.
Mi ero immerso e basta.
Più o meno come seguissi il piffero di una magia lusingatrice che mi spingesse lontano verso abissi di strane dimensioni, astratte, immateriali, quasi da vivere in altri tempi cosmici.
Magia dissimile certo, forse opposta, rispetto all’irripetibile incantesimo che, durante l’indolente sfrontata giovinezza, sentii trascinarmi semplicemente verso un altrove, corposo, multiforme, edonistico, attimizzato in ogni sfaccettatura. Sapore di sale.
Una melodia, intrufolatasi per vie misteriose nella parte della mente addetta agli addobbi acustici delle decisioni importanti, prima che io cominciassi a nuotare aveva suonato il tema “maestoso” che caratterizza la sinfonia numero sette di Beethoven, cui aveva fatto seguire, senza alcuna soluzione di continuità, le prorompenti battute iniziali che aprono l’Uccello di fuoco di Stravinsky.
Prepotentemente, questi ultimi accordi, come una esplosione d’artiglieria narrata in tante vecchie storie di trincee e di orgogliosi disprezzi del pericolo, mi scoppiavano intorno e dentro, mentre la mia testa traboccava d’immagini e ripeteva l’ultima frase con la quale Gilda, la sera prima, uscendo di casa, aveva sbattuta la porta.
-“Il tuo scetticismo uccide la tua fortuna”.
Volevo, sapevo di volere, e sapevo di poter volere.
Cosa?
Volevo volere.
Io non mi ero bardato con cinture e boccaglio per inseguire pesci impauriti o sconvolgere come fulmine tra i licheni nel bosco, le alghe e gli avannotti.
Neppure avevo armeggiato intorno ai tridenti allo scopo d’infilzarne le punte limate e stralimate, molate, scartavetrate e lucidate, nelle squame di scorfani immobili o nei morbidi opercoli delle seppioline…
Ancora non sapevo che un flauto magico mi spingeva verso di lei.

In effetti, senza averne coscienza, non altro che per lei mi ero gravato in vita con tre chili di piombo. Un simbolo: la murena.
L’immobile predatrice.
La bestia mai impaurita dal progressivo avvicinamento della morte che si accosta mimetizzata in una macchia scura: la tuta nera del subacqueo che piomba in discesa dal cielo.
Feroce se mostra la bocca spalancata, già pronta a ghermire.
Tenace, lascia scoperti i denti arcuati: ganci indeformabili come l’acciaio.
Solitaria.
Rinchiusa in una tana in cui lo spazio è minimo.
Arrotolata su se stessa in modo da aderire con forza alle pareti al fine d’impedire alla preda azzannata di fuggire trascinandola con sé.
Volevo la murena: una poesia.
Ne andavo alla ricerca.
Senza averne consapevolezza.
Attende il momento atto a coglierti di sorpresa, e se ti morde un dito, non puoi far altro che tagliarlo per non restare ancorato al fondo dalla tenacia del suo aggancio.
Molti Cacciatori sono stati cacciati, cioè molti Pescatori sono stati pescati, voglio dire che molti Sub sono rimasti sub, molti Poeti non hanno mai affrontato una murena.
Molti Traditori sono stati traditi.
Quella mattina, come ho già detto era inizio settembre, Gilda
era rincasata quasi all’alba perseguendo a suo modo l’intento di dare un segnale concreto ed immediato alla ennesima litigata che avevamo protratto per tutta la sera precedente, prima che sbattesse la porta uscendo:
-“Hai chiamato l’idraulico?”
-“No.”
-“Perché?
Quanto tempo dovremo stare con la goccia che cade nel lavello?
Possibile che la casa non debba mai essere in ordine?
Mi senti?
Mi ascolti?
Dico a te, mi odi?
Non solo non gli hai telefonato, ma fai pure l’offeso.
Il silenzioso.
L’insofferente.

Quando mi portavi le rose rubate, ai tempi del nostro amore, non aspettavi due volte per accontentare un mio desiderio! Era bello.
Ero bella.
Ti piaceva.
Ti piacevo.
È sempre stato solo questo.
Piacere.
La molla che fa girare il mondo attraverso i coglioni…”
-“E basta.
Appena ti mollo, cazzo, non la finisci più.
Non l’ho chiamato.
Capito?
Non l’ho chiamato.
E non lo chiamo.
E basta… ”
-“No, basta lo dico io.
Che molli, che cazzo, che basta.
Che basta, che cazzo, che molli.
E una, e due, e tre, e insomma quanto pensi che potremo andare avanti così?
Un giorno litighiamo per il cibo, una sera discutiamo per la gente, una notte sbuffiamo per una toccata, e poi gli orari, e poi la macchina, e poi, e poi l’idraulico.
Sono stanca.”

Quella mattina di settembre, giunto ormai a quasi la metà del tempo che di solito prevedevo di utilizzare per l’immersione, mi resi conto che dovevo almeno per un attimo tentare di designare, sebbene posticcio, un qualche obiettivo da prospettare per la mia battuta di caccia, ed occuparmene, tralasciando sia le immagini dei totani filosofeggianti e delle attigue pantegana in attenta adorazione, e sia le considerazioni relative alle ossessioni che mi stavano procurando le ultime vicende affettive.
Optai per stanare una murena, credo seguendo la tentazione cosparsa mellifluamente dallo stesso piffero magico che aveva accompagnato da protagonista l’inizio della mia immersione, ed effettuai un rapido controllo, sia degli agganci tra la sagola, la cintura, ed il pallone, e sia della posizione in cui era avvitato il tridente all’asta d’acciaio.
Pigiai con due dita sui baffi per agevolare l’aderenza della maschera fra la bocca e il naso.
Spinsi leggermente il tubo del boccaglio verso il punto di contatto tra la molla della pinguino ed il lato frontale della mia tempia.
Per un attimo, di sfuggita, immaginai ancora che il totano originato dalla mia fantasia stesse penzolando a mezza acqua, poco sovrastante il fondo, proprio in un preciso punto sul quale mi si era fermata l’attenzione durante una precedente immersione per avervi visto intrattenere numerosi sciami di novellame, brulicanti con movimenti sincronizzati, e ciascuno sempre nella sessa buca.
Tuttavia, subito dopo, volgendo una rapida occhiata al sacchetto per le catture che portavo agganciato al pallone di segnalazione, partendo dalla ricostruzione di come, alcuni giorni prima io avessi in parte modificato il sistema di aggancio del pallone-boa alla cintura che stringevo in vita per gravarmi dei pesi necessari ad una comoda e veloce discesa, mi arruffai nel ricordo di quando, parlando con uno dei fratelli di Gilda, abile sì nella pesca subacquea, però di una fortuna sfacciata, mi ero lamentato che la conformazione di quel fondale, altalenante, con grossi promontori quasi emergenti ed immediate cadute a picco, non solo rendesse problematica una buona visione e costringesse quindi ad immersioni prive di riferimenti, ma in alcuni casi configurasse degli ostacoli, tra il pallone stesso ed il sub, in grado di bloccarne la discesa.
La parte superiore del cavetto legato al pallone incagliava tra gli interstizi e le protuberanze degli scogli emergenti, opponendo resistenza alla immersione.
Quel mio cognato, esperto fortunato predone delle profondità marine, che aveva un suggerimento per ogni situazione, non mancò l’occasione per dimostrarmi la sua maestria mettendomi a conoscenza di un trucco, a suo dire segreto, che lui usava praticare:
-«Metti la cintura con i pesi intorno alla vita.
Giusto?
Leghi ad essa la fune del pallone boa.
Vero?
Per far sì che il pallone non s’incagli nelle fenditure degli scogli affioranti, devi legare ad un anello un peso tra i cento ed i centocinquanta grammi e farlo scorrere liberamente sulla corda tra la cintura che hai in vita ed il pallone.
Guarda ti faccio un disegno.
In questo modo hai più di un beneficio.
In primo luogo, durante il nuoto in mare aperto, se tu galleggi il pallone sarà quasi attaccato a te in quanto il gancio che sostiene il piombo, spostandosi attraverso l’anello scorrevole, affonderà gran parte della corda, impedendo al pallone di allontanarsi; in secondo luogo, se vorrai immergerti, questo stesso movimento di pesi spingerà la boa a stazionare precisamente sulla tua verticale.
Nell’uno e nell’altro caso, il sistema contribuirà finanche ad una maggiore sicurezza, per quanto riguarda eventuali tardivi avvistamenti da parte di natanti a motore.
Ma ciò che a te interessa è che la boa da segnalazione non si blocchi tra le cime degli scogli, e con il mio artifizio il risultato positivo è sicuro, perché il pallone, non essendo trascinato dalla corrente, seguirà docilmente da vicino il tuo percorso, il quale, ovviamente, non andrà in collisione con speroni emergenti.»
-«Bella idea.
Un piombo, un anello.
Semplice.»

Esauriti i pensieri intorno all’argomento piombo-anello-sagola, immediatamente, come in un rosario monotono, ripetitivo, inutile, sciocco, allucinante, altri momenti di vita antecedente, altre meditazioni, altri altari alla ragione incontrastata scompaginarono il già disordinato approccio per il controllo relativo ala corretta sistemazione delle attrezzature che mi portavo appresso nuotando, lentamente, nel profondo mare azzurro cupo steso, come un velo d’odalisca, sotto il dirupo digradante dall’antico borgo rurale di Campagnano.
Ed allora mi coinvolsi nel tentare di chiarirmi il giusto e l’ingiusto dei comportamenti che avevo posto in atto negli ultimi tempi.
Forse tentando di risalire ai motivi, se non ai moventi, della crisi che ormai opprimeva il mio rapporto con Gilda.
Una analisi in piena solitudine, tra cielo e mare, tra sole ed abisso. Da quando ero tornato in maniera definitiva sull’isola d’Ischia, lasciando via via deperire ogni precedente contatto con il mondo dei viaggi e degli incontri, non rispondevo al telefono e, peggio, neanche leggevo un libro o ascoltavo una musica che fossero prodromi di nuovi interessi culturali.
D’altra parte schifavo da sempre la televisione, non avevo mai smesso di considerare i giornali come impapocchiamenti della verità, e l’unico modo intrigante per trascorrere il tempo, oltre ad utilizzarlo nella normale amministrazione familiare, mi era parso utile scorgerlo nella ricerca di inezie complementari ai flussi delle vite che mi passavano accanto.
Da amplificare con tale parossismo da far sì che esse mi provocassero valanghe di vertigini.
Gilda non mancò di notare questi precipitii, a volte staccati dall’algido massiccio della mia ragione, in altri casi appiccicati ad una parte della mia epidermide sentimentale, quasi sempre sviluppatisi nell’apparentemente definitiva discesa di uno yo-yo, le quali tutte mi spingevano comunque verso il centro di singole attività umane, quasi che in esse fossero stipati i segreti del bello e dell’amore.
Lei seguì con cura le tracce che tali mie innocue divagazioni mentali lasciavano attraverso gesti, parole e frasi inserite nel racconto che stavo scrivendo, ed appena ne ebbe certezza, indicò con l’indice il centro della mia fronte e scandì con eccezionale chiarezza, lentamente:
-”Niente di più falso.
Nel piccolo non risiede il complesso, e niente è più complesso del bello e dell’amore.”

Mi ero certamente esaltato.
Avevo certo dilatato la tranquillità a volte grigia e passiva di un rapporto consolidato, trasferendo su di essa, pur senza volerlo, ciò nondimeno in maniera automatica ma indubbiamente con pensieri ed atteggiamenti, sfilacciati brandelli di una inarrestabile sindrome distruttiva della ipocrisia e delle colpevoli prevaricazioni.
Se io fossi il loro dio – pensavo, proponendomi un particolare del rapporto tra un dio ed i suoi uomini – m’incazzerei tremendamente per quanta irrisoria partecipazione personale pongono nella difesa della mia universalità.
Urlando nel giardino di casa, iniziai ad urlare che, al suo posto, avrei urlato per tutte le galassie:
-“Cosa discutete con quei peccatori originari delle province romane!
Così agendo vi prestate al gioco di profeti che non ho mai annunciati e che hanno ignorato il figlio mio e le mie colombe bianche, imbecilli.
Va bene… vediamo… forse… non ho detto questo… ogni religione è figlia del creatore… il mio creatore è più antico del tuo… il tuo modello è senza barba bianca… vogliamoci bene… siamo tutti nella stessa barca… nessuno deve prevaricare l’altro… una moschea a te, una basilica a me… grande rispetto reciproco per le nostre fedi… una porpora in più, un cappellino in più… un pellegrinaggio… una devozione… una statuina… un libricino… una via…un muro… una sinagoga… un altare… un muro… una cappella… una campana… un muro… un’ostia che significa inganno.
Avete raggiunto la comodità?
Poltroncine, tronetti, portantine, limusine, schiavetti, frocetti, chiavetti, chiav…
Volete altro?
Potere, ricchezza, santità, alleluia, adorazione, potenza, fetenziacce, fetenziaccissime…
Tutto in nome mio.
Restando al riparo della mia invincibilità.
Con in bocca le palline di un rosario che appartengono alla mia verità.
Per effetto di un disonesto proclama e di collettivi auto riconoscimenti d’imbecillità.
Ma io non ho mai dato questi attestati!
Né ho chiesto aiuto per propagandare il nome mio!
Neppure ho offerto difese ai cialtroni ed agli imbonitori di povere anime ingenue!
Io non impongo preghiere!
Io non ho lamenti per la mia solitudine, né patisco l’ignoranza di chi sfugge a se stesso, e poi, e poi, e poi, e poi.
È però certo senza poi e senza ma che io schifo profondamente l’ignavia dei vostri comportamenti incoerenti, finanche con la truffa sfacciata che vi rende sovrani.”

Gilda non poteva non udire, dovunque fosse, e non voleva tacere nei confronti di qualunque provocazione io producessi, quindi, lasciò che terminassi il proclama, e punse l’evidente allitterazione verso cui non ponevo remore:
-“Ciascuno è re dei sudditi che riesce a conquistare.
Ciascuno è dio dei fedeli che riesce a creare. vuoi ricrearti re, dio, suddito o fedele?
Non credo che tu lo sappia, e non lo scoprirai urlando.”

Ma io aspettavo da lei lozioni odorose, dolci linimenti, melasse e dolcezze, infusi inebrianti, vibrazioni sottocutanee, suadenti passionali serenità, il volo silenzioso di abbracci mai privi di… mai privi di tutto intero il nostro passato!
Ciò non avvenne neppure quando iniziai a scrivere un capitolo nel quale riportavo di aver fermato la mia attenzione su un profilattico usato e lasciato per terra, in una calda giornata autunnale, accanto al muro di cinta di un parcheggio confinante con un terreno incolto. … qualcuno al mio posto l’avrebbe fatto segno di considerazioni dai vaghi risvolti cannibaleschi?
Dal mio totalizzatore la risposta positiva non è data vincente. Eppure di un così fetente gesto d’inciviltà – parcheggio Cava dell’isola 14 ottobre 2006 ore 13 – per me sarebbe stato divertente parlarne con lo strafottente autore.
Egli, senza dubbio sfacciato e prepotente, incolto e superficiale, maschio ma per niente uomo, forse sarebbe rimasto disorientato se fosse stato condotto a vedere le migliaia di formiche nere freneticamente impegnate a distruggere annientare e trasportare nei loro depositi alimentari i poveri resti dei suoi spermatozoi.
Eppure, quasi certamente, egli fa sua la fede che assegna a quella schifezza – da lui lasciata in balia dei fieri predatori – i diritti inalienabili riconosciuti a beneficio delle forme vitali preposte alla riproduzione della specie umana, negli stessi termini nei quali, questa ultima, riceve gloria per essere stata plasmata personalmente dal creatore in cui lui, lurido zozzone, finge di credere.
I massimi requisiti della fertile potenza di quel porco eiaculatore, i codici del suo patrimonio genetico, assaliti da legioni di formiche nere, devastanti distruttrici dell’unico elemento di civiltà che gli era dato di possedere!
Lo sperma è spesso migliore dell’uomo”.

.“Maniacale ricerca dell’orrido”, fu il commento che Gilda lasciò a margine della pagina.
Ed allora iniziai, solo iniziai, per mia fortuna iniziai soltanto, a cercare di ricavare un nesso dal fatto che a mia sorella dopo la menopausa crebbero le unghie.
Una spuma d’onda sgocciolò nel tubo della maschera richiamandomi a riprendere il controllo della situazione in cui mi trovavo.
Quasi a fuggire da questi nuovi e vecchi invadenti ed inopportuni pensieri, effettuai di botto un profondo respiro, spinsi la testa sottacqua, ruotai il capo verso il basso, e, dando un deciso colpo di pinne, mi lasciai cadere nella profonda fenditura tra due masse rocciose.
Nel chiarore indeciso delle strisce di sole che, penetrando i circa otto metri di profondità, in una prospettiva parevano sciamare entro gruppi aghiformi tra i filari delle posidonie, mentre invece, in un angolo opposto, squarciavano il fondale trafiggendo l’incastro della falda sulla scogliera, come un fantasma di pura luce, seguendo la corrente sottomarina con un docile movimento a pendolo che non ne spostava granché la posizione, un fantastico enorme agglomerato, perfettamente mimetizzato tra le rare pietre, le variegate alghe, e gli spigoli di sabbia, giaceva come un polpo.
Un polpo?
Una piovra!
Otto metri circa sotto di me, un polpo di dimensioni mai prima affrontate sbatacchiava fra i suoi enormi tentacoli una macchia nerastra simile ad una delle rotondeggianti rocce laviche stracciate dai bordi del magma solidificato.
A meno che non si fosse trattato di un riccio gigante o di un grappolo di cozze, la macchia non mi sembrava giustificata in quel luogo.
Non ebbi in mente altre ipotesi.
Neppure che potesse trattarsi di un totano.
Le pulsazioni m’incalzavano risucchiando quanto più ossigeno possibile dai polmoni, l’adrenalina mi eccitò rendendo secchi e decisi i movimenti con i quali proseguii la discesa, gli occhi sbarrati dietro il vetro perlato della maschera molto compressa sulla faccia puntarono il centro dell’ammasso spiaccicato indifeso sul fondo, la mano destra strinse l’asta d’acciaio del tridente fino a procurarmi dolore per l’improvvida compressione, il braccio sinistro si mosse a cavare il pugnale dalla guaina legata al polpaccio.
Non ebbi un pensiero.
Che fosse un totano.
Agii come un plotone di armigeri.
In una azione simultanea, un unico sincronismo, un insieme fatto di singoli particolari, in un unico tutto, il mio corpo non mi appartenne, ma si comportò, nelle sue diverse strutture, come un gruppo formato da numerose entità, ciascuna decisamente separata da tutto il resto, ma che attuava un canovaccio a lungo studiato e provato e riprovato.
Il sincrono meccanismo di una squadra d’incursori movimentò ogni singolo muscolo di ogni azione della mia persona, anche sensoriale, tattile, visiva, preposta al controllo della fulminea immersione d’attacco che andavo attuando.
Era lì.
La bestia più grande e fascinosa che avessi mai affrontato nella vita.
Con tutti i pericoli.
Era lì.
Con tutte le insidie.
Certo non tradussi in un ragionamento logico l’immagine del cefalopode mentre si dibatteva, trafitto dall’arpione, brandendo i tentacoli alla ricerca di un aggancio con l’assalitore per trattenerlo sul fondo fino alla morte per esaurimento delle sue risorse d’aria.
Nemmeno mi dettai la prudenza di non avvicinarmi tanto da consentirgli di ferrarsi ad una qualsiasi sporgenza voluminosa, sfilacciando un tentacolo sulla mia mano che impugnava l’arma.
Neppure, neanche, nemmeno ricordai per un attimo la nube nero inchiostro che avrebbe potuto spargermi intorno, impedendo, così, che vedessi i pericoli portati dai suoi contrattacchi.
Era lì.
Con tutte le insidie.
Era lì.
Con tutta la potenza del suo mostrarsi padrone in un regno che non concedeva superflui respiri, forze e movimenti.
Un mondo senza poesia.
Un mondo che non accoglieva benevolo l’infido luccichio del mio sguardo, né il barlume del mio pugnale.
Con me veloci, le punte del tridente, meticolosamente affilate, fenderono l’acqua alternando bagliori nella discesa.
Tutte le forze del braccio teso e del corpo trascinato nell’apnea dai pesi che portavo agganciati alla cintura, furono guidati dall’incosciente volontà di una conquista che di conquista non aveva nulla.
Per la cattura più esaltante da mostrare che da possedere gelosamente, fosse anche solo nei ricordi.
Per una morte che se fosse giunta sarebbe stata solo una morte,
Era lì.
Anche io.
Non ero stato sempre da sempre ai bordi di quel promontorio, non mi ero di abitudine tuffato con tanta foga, repentinamente, verso una situazione imprevista, non avevo mai subito l’ansia per la scoperta di una chimera, né ero mai stato succube di una simile crudeltà immotivata.
Gilda diceva
.“Il tuo malvezzo è un presuntuoso orgoglio”.
In tante occasioni sarei stato tentato di spingerla a ridimensionare, utilizzando esempi concreti, un giudizio che non avendo nulla di concettuale, alla fine di ogni discussione, lei m’appiccicava sul muso come un’aringa affumicata.
Se ipotetici contenitori potessero recuperare tutti i suoni, (i quali come ogni accadimento non attraversano spazi senza lasciare traccia), ed il loro utilizzo avvenisse in special modo accanto al lume dal braccio verde e dalla calotta gialla che illumina le mie letture mentre Gilda appassisce davanti all’ultimo film giallo trasmesso dalla televisione di stato, essi risulterebbero certamente traboccanti di una monotona ripetizione, in falsetto, urlata, malinconica, sottovoce, ad occhi bassi, sferzante, delusa, un groppo in gola, una stanchezza di confronti, un presagio di distacchi…
-“Il tuo presuntuoso orgoglio”.
Non ero stato sempre da sempre ai bordi di quel promontorio, ed ugualmente non era restata sempre da sempre nella mia mente l’emozione del primo incontro con Gilda.
Paradossalmente, invece, continuavo a ricordare il temine linguistico con cui in principio esaltavo le mie individualistiche esultanze per l’avvenuta conquista del suo primo semplice gesto di affetto. In una trasformazione compiuta a seguito d’impercettibili cambiamenti, negli ultimi tempi, certo anche come corollario di continui diverbi, essa, la parola magica scaccia problemi, era ormai diventata il tormento di una goccia che rimbombi nelle orecchie, la nebbia che abbrutisca le linee orlate degli alberi, il mio compagno indesiderato, monotono, piagnone.
Ormai in me fomentavo finanche lo scherno, per uno spiacevole senso di banalità e balordaggine che mi ero convinto l’accompagnasse.
Fosse stato il contrario avrei avuta una labile speranza di attendere al confronto con il nostro passato, per tentare così di avviare tra noi una nuova forma di vicinanza più adatta ai tempi, alla società ed ai nostri anni.
Avessi continuato a sentire vivo il dolore del groppo che mi risalì dallo stomaco alla gola, lasciandomi senza fiato senza parole senza… senza tutto allorché Gilda mi gettò la prima volta le braccia al collo; fossi stato memore del graffiante percorso che una lacrima aveva solcato tra i miei occhi al contatto con la sua guancia; avessi saputo ripetere la sublime levità in cui il mio corpo depose la mia anima affinché divenisse libera di fuggire verso un bacio, un bacio e basta, allora sì, allora sì, allora sì tre volte, ora potrei affermare che il mio amore fosse diverso da tutti gli altri.
Ma forse gli amori sono veramente tutti uguali, come i cinesi. Non voglio a questo punto proseguire con i flash di Antonella che espose le labbra (o forse era Clara?) (o forse era Gilda?) (a chi?), perché ho il netto ricordo di quando mi accorsi che avevo trovato un mio equilibrio, senza averlo cercato, e quindi scrissi che esso imponeva… La rinunzia a continuare nel tentativo di costruire un senso per l’amore.
smettila di essere bufera
Su questo cielo
Di primo meriggio
Tracciato dal volo dei passeri
-di tanto è capace settembre-
Allo scopo di salvare la speranza, o se non altro almeno l’illusione, di creder che forse le storie d’amore sono tutte uguali, come i cinesi.
Miliardi d’individui dai tratti identici: stessi occhi, stessa statura, stesso modo di porgere, stesso incedere.
Eppure gestiscono, con comportamenti del tutto analoghi ai nostri, i rapporti e le individualità.
Si riconoscono.
Le storie d’amore sono tutte uguali.
Io non sono né Gino né Lelio, e Gilda non è Clara e neppure Antonella. Da Elena a Giulietta, dal Principe Azzurro a Dante, le vicende degli innamorati s’identificano, nel tema comune dell’irrinunciabile, perfino con la infinita determinazione
«Per me non conta altro» della gente comune.
Ed allora io sono Gino, divento Lelio sono… tu sei…
La passione universale ed eterna del mito Medea è identica all’irrinunciabile ostinazione che in ogni attimo rende moltitudini di persone anonime protagoniste di trombe d’aria tanto brevi, impercettibili e disattese da smuovere a stento l’atmosfera sopita delle loro famiglie, delle piccole comunità nelle quali articolano l’intimità della loro vita, ed eccezionalmente, nei casi brutali più eclatanti, divengono elementi di curiose pruderie e pettegolezzi per le cronache da fondo pagina di giornali locali.
Le storie d’amore sono tutte fotocopie nel linguaggio e nella gestualità – come i cinesi -, eppure ciascuno di noi ripete e riconosce le proprie. Io sono Clara sono te sono Antonella tu sei me e Gino e Lelio.

Così nel suo destino
così
senza battiti di ciglia
ad un velo dal suo respiro
fra le sue dita
così
nella solitudine delle nostre ansie,
io sono la viola
cercata in un bosco
io sono corda di viola
in un suono d’orchestra
io sono viola pensiero
che scuote passioni
io sono di mammole viola
la macchia, l’inchiostro,
di semi di viola appassita
profumi e magie,
io sono poeta
io sono
silenzio.

Ho detto:
-«Voglio che tu sia la mia donna»
Ha detto:
-«Voglio che tu sia la mia amante.»
Ho detto:
-«Ti amo.»
Ha detto:
-«Non chiedermi amore».
Ognuno riconosce la sua.
Per sfumature in teneri acquarelli, per contrasti di toni in
opere corpose, per forme di linee in immagini astratte e cerebrali.
Storie tenere, corpose, cerebrali, come tutta la vita mia”.

… Con Gilda.
Quella mattina di inizio settembre, prima d’immergermi nella nuova solitudine, nella desolata ricerca della mia murena, il rimbombo ossessivo dell’aggettivo che mi aveva dato sempre da sempre il senso del mio amore, mi donò un’ultima briciola di poesia:

Scriverò di te innocente
– giovane Apaches –
dalla lunga chioma di grappoli
di grappoli d’uva rossigna,
tra le fiamme dei tronchi
dei tronchi ardenti sfavillanti
una notte di cielo deserto,
deserto, nel cuore del deserto.
Penserò alla tua malinconia
– giovane Apaches –
d’attesa e di passioni con occhi memorie
memorie affastellate,
sopra i fumi dei tronchi
dei tronchi assopiti
nelle notti di cielo deserto,
deserto, come il cuore del deserto.
Amerò gli sguardi squillanti
– giovane Apaches –
per la felice follia di silenziosi sorrisi
sorrisi all’ombra di tante chimere,
dentro ai profumi dei tronchi
dei tronchi spenti dalla mia ombra
ogni notte di cielo deserto,
deserto, più del cuore del deserto.

Prima di uscire verso il mare, con in cielo il sole ancora rosato e velato come Gilda nel letto, con due stelle basse sull’orizzonte come gli occhi di Gilda dopo una notte di baldorie, lasciai il foglietto dei versi accanto al cofanetto del trucco – Gilda lo usava ogni mattina -, presi una penna di colore diverso, rossa, detti ascolto, per una volta, alla voce della ragione che m’imponeva di fare chiarezza.
Affinché Gilda sapesse.
Non solo per giustificare la mia decisione.
Andare in cerca della predatrice immobile.
Sollevare un velo sul presente.
L’ossessione della murena.
Ciò nonostante la sola libertà che seppi concedermi fu un messaggio criptico, risultato infine appannato, celato tra parole poco più che banali, scritto con penna rossa in poche righe a margine della poesia Apaches:
-”La colpa sono io:
Un bacio a nostro figlio.
Vado ad incontrare la mia bestia.
Addio:”

Certo, ho sempre da sempre avuto memoria della parola che mi riempiva la testa e la vita, la testa e la vita: Incredibile.
Un amore incredibile, un amore incredibile.
Incredibile.

Per Aurora – volume quinto – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Dedica

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così fu

PARTE 1

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SETTIMO

CAPITOLO OTTAVO

CAPITOLO NONO

CAPITOLO DECIMO

CAPITOLO UNDICESIMO

CAPITOLO DODICESIMO

CAPITOLO TREDICESIMO

PARTE 2

CAPITOLO 1

CAPITOLO 2

Poesia sporca

Poesia sporca

Per Aurora – volume quinto – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

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Per Aurora – volume quinto – Vetrina LULU

Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

seconda edizione

Version 5 | ID r99qmg

ISBN 9781471068423

Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Versione 4 |  ID r99qmg
Creato: 31 ago 2022
Modificato: 31 ago 2022
Libro, 100 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm)
Standard Bianco e nero, 60# Bianco
Libro a copertina morbida
Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00

Titolo Per Aurora volume quinto
Sottotitolo Alla ricerca di belle storie d’amore
Collaboratori Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Marchio editoriale Lulu.com
Edizione Nuova edizione
Seconda edizione
Licenza Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
Titolare del copyright Bruno Mancini
Anno del copyright 2022

E allora la bacia con violenza. Sulla bocca trattenendole la testa – come una bambola di pezza -, sul collo comprimendole le guance – come il morso per una cavalla-, sul seno acerbo – strappandole stoffe e bottoni.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo”.
E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo, Non farlo”.

Per Aurora volume quinto

seconda edizione

Racconti

La menopausa di mia sorella

Così fu

Info: Bruno Mancini

Cell. 3914830355 tutti i giorni dalle 14 alle 23
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Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO SECONDO

Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO SECONDO

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO 2

Senza aver catturato neppure una preda nonostante le numerose calate in cui mi ero impegnato durante quella ora iniziale, ancora mi distraevo fantasticando intorno al dialogo improbabile tra un totano ed una pantegana!
Il totano: -«Che tu, tracotante, sia silente, aggiunge infimo blasone alla forestiera origine da cui provieni e che ci accingiamo, con giusto impegno e faticoso esame, ad irridere o laudare, a confinare nei ghetti della vergogna oppure a sdoganare da calunniose erculee maldicenze.
Negarsi il nesso tra rimorsi e sorsi di discorsi infissi nei fossi messi tra i sassi dei troppi “io fossi”, non ritara la rara misura della tenue natura, né ritarda la sorda onda che ti conduce alla luce.
La sorella di quel mio conoscente (un pescatore subacqueo che vedo spesso in giro, un sub con grosse pinne rondine del quale odo vibrazioni mentali durante le sforzate apnee che usa fare da queste parti), venti tempi dopo la nascita, per effetto delle sue “cose” fu serrata, allegra giovinetta, tra quattro mura sette alberi e cinque gatti, e, tuttavia, nessuno ha mai venerato il monastico dolore delle sue progressive privazioni al cospetto di Apollinee forme esibite da fustolenti fustacchi.
Come faccio a non impegnare la tue deludente sapienza verso la dicotomia di una follia e di una folle: lame dai bordi affilati, innocue se divaricate su un cuscino d’appoggio, bensì taglienti quando attacchino unite nel frangere il tessuto?
Allora mi intrigo ad appiccicare le ventose dei miei sette (ne manca uno che ho perso in combattimento) tentacoli sui diversi strati di questo privato mondo sotterraneo e sottomarino, mutando colore e dimensione, mimetizzandomi.
Poi vedremo insieme come finirà… »
E poi la mia fantasia continuava spostandosi sulla figura
silenziosa del ratto… … la pantegana non capiva un tubo.
Essa, da sempre abituata agli sparagnini termini rivieraschi – fame scogli venti gatti – nascondeva l’imbarazzo di fronte all’incomprensibile magniloquente eloquio abissale, spruzzando perfide puzze ad ogni passaggio dei ghirigori che ripeteva intorno al capoccione smisurato del totano poeta.
Ad ogni giro alzava la coda un po’, di più, un po’ di più, di più di un po’, un po’ di più di un po’.
Sfiorava i vettini terminali dei suoi tentacoli appassiti mostrando, ad ogni giro, un po’ di più, di più di più il sottocoda schioppettate.
Disse il totano: -«Melliflua tenebrosa, la seduzione è un’arte degli arti abbarbicata nei rovi incastrati tra i detriti degli orti, conserta, con serti, nei cesti concerti di gesti per cupidi musicanti alati.
Vai vaneggiando per vezzeggiate vezzose villiche promiscuità! Promiscuità è il tocco di un tentacolo di totano nella pelvica passera di una patente pantegana.
Riduci i giri, risparmia i sogni, ripensa al tuo delirio di femminilità un dì concupita, ed ora in ansia per asfittici orgasmi.
Rimedia al torto dell’offesa carnale con la ragione degli istinti naturali.
Io sono il totano, se voglio… se voglio io sono Poeta.
La sorella dell’imprudente apneista dalla maschera appiccicata al volto di cui ti ho detto, a trenta tempi dalla nascita usava cospargere di miele e di nettare le rotonde bigliette dei suoi capezzolini, dai pizzi puntuti, per avvampare l’infimo piacere del trucido compagno: assatanato assassino dei viaggi in nuvoletta.
Ancora mi stupisce, procace ammasso di nefande nequizie, il vano turpiloquio che gli slabbrati ondeggiare dei tuoi chiapponi sbudellano dal mio teorema concettoso.
Vedrai, insieme, inoltre, infine, sarà tutto facile… »

Per Aurora – volume quinto – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Dedica

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così fu

PARTE 1

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SETTIMO

CAPITOLO OTTAVO

CAPITOLO NONO

CAPITOLO DECIMO

CAPITOLO UNDICESIMO

CAPITOLO DODICESIMO

CAPITOLO TREDICESIMO

PARTE 2

CAPITOLO 1

CAPITOLO 2

Poesia sporca

Poesia sporca

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Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

seconda edizione

Version 5 | ID r99qmg

ISBN 9781471068423

Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Versione 4 |  ID r99qmg
Creato: 31 ago 2022
Modificato: 31 ago 2022
Libro, 100 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm)
Standard Bianco e nero, 60# Bianco
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Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00

Titolo Per Aurora volume quinto
Sottotitolo Alla ricerca di belle storie d’amore
Collaboratori Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
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Seconda edizione
Licenza Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
Titolare del copyright Bruno Mancini
Anno del copyright 2022

E allora la bacia con violenza. Sulla bocca trattenendole la testa – come una bambola di pezza -, sul collo comprimendole le guance – come il morso per una cavalla-, sul seno acerbo – strappandole stoffe e bottoni.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo”.
E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo, Non farlo”.

Per Aurora volume quinto

seconda edizione

Racconti

La menopausa di mia sorella

Così fu

Info: Bruno Mancini

Cell. 3914830355 tutti i giorni dalle 14 alle 23
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Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO PRIMO

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TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO PRIMO

LA MENOPAUSA DI MIA SORELLA

Conversazione fra un totano ed una pantegana

CAPITOLO 1

Il totano:- «Cara Pantegana vivo da tredici periodi in questo lembo di liquido abisso rilucente, ma mai prima avevo posato l’olfatto l’udito lo sguardo su neruleee rotondità foriere di simili fetidi squittii.
D’onde vieni, chi sei, perché dondoli poppe e deretano, scomposta e sguaiata, al limitar della mia terra marina?
Pria che tu risponda, sarebbe giusto che sia io a presentare le mie tavole anagrafiche, per dovere d’ospitalità e per sesso.
D’altro canto, nel giroscopico testo unico di civili atteggiamenti, anche il blasone e l’età vengono qualificati come caratteristiche da rispettare con tutte le stucchevoli forme d’ossequio che le situazioni richiedono.
Tuttavia, e solo in quanto le mie onorificenze non ricevono unanime riconoscimento al pari di quelle feudali, né godono di privilegi uguali a quelli riservati alle specie e sottospecie di politici, mi induco a posare la prima pietra della nostra conoscenza.
Cosa c’è?
Quid accidit?
Ho profferto parole insensate o… insensate sono le tue ignoranze?
Ripeto il concetto con termini d’uso plebeo ed esempi tratti dalle notizie del telegiornale, e vengo a chiederti se hai mai saputo di un vincitore del Premio Nobel che, in ragione di tale riconoscimento, abbia sistematicamente beneficiato di aerei personali o auto blu con chauffeur in livrea dai bottoni d’oro.
No, mai successo.
Eppure quel Nobel per la medicina… sì lui… ha salvato con la sua scoperta milioni di ammalati, e, forse, miliardi di futuri contaminati.
Il premio in denaro, la festa alla presenza del RE, il suo nome inciso nel libro d’oro della onorificenza, tante foto in giro per il mondo, sui giornali, per televisione… e basta.
Non farnetico dicendo che sia rimasto povero, eventualmente lo fosse stato, ma affermo che ogni successivo privilegio gli sarà stato intestato in virtù del suo lavoro e non come puro riconoscimento per un titolo certamente più prestigioso di tante patetiche onorificenze politiche e settarie.
Non mi dilungherò nel tediarti con la ricostruzione dei cavilli e delle sopraffazioni usate contro di me da masse d’incolti meridionali per giungere a farmi sprofondare in questo abisso, strumentalizzando una mia mai dimostrata mancanza di rispetto nei confronti della loro populistica deità artificiale di origine argentina – spesso ritratta in brache bianche, maglietta azzurra ed un pallone di cuoio appiccicato al piede sinistro – soprannominata El Tibe o El Cibe o qualcosa di simile.
Eppure avevo cantato i pastori dell’Ellade in guerra, i fieri naviganti fuggiti dalle troiane mura, l’inferno e il paradiso (il purgatorio mi venne meno bene), Lucia la santarella, il cinque maggio, il piccolo Lord, Cappuccetto rosso e Biancaneve.
Nessuna gratitudine sconfigge mai il danno di un’ultima minima offesa.
Il nostro apporto alla gioia, non effimera, di una emozione continuamente dettata finanche a distanza di secoli per mezzo solo di parole – a volte tradotte da un altro idioma -, e poi i nostri casti baci alla cultura, e poi l’essere o l’essere stati nei pensieri, sentimenti, amori per tutti e di nessuno, cioè tutta la linfa di me poeta, io poeta, travagliato pazzo visionario maledetto stramaledetto stramaledettissimo poeta, tutto ciò non ha retto lo scontro neppure con la stupida statica fotografia di una specie di mini guitto in mutande soprannominato El Sibe o El Bibe o qualcosa di simile.
Tu prova ad aprire il tuo sguardo oltre le comode finestre dei provincialotti inconsistenti particolari luccichii idealistici, e subito comprenderai quanto vero sia che, per ognuna di quelle inondanti apparizioni, il mio contributo poetico filosofico ne ha già, da tempo immemore, sancito la storica immortalità mediante la trasposizione artistica in epopee travagliate e sublimi.
La sorella di un mio conoscente, a dieci tempi dopo la nascita ha avuto le sue “cose” ed è diventata signorinella pallida, però nessuno ha scarnificato l’evento fino all’essenziale apogeo dell’univoco nucleo di recondite armonie bellamente stipate nell’intangibilità delle sue intime segrete sensibilità femminee.
Ciò mi consente di credere che: o non tutti gli eventi hanno per diritto di nascita uguale dignità storica, oppure è vero che anche ciascuna singola stronzata acquisisce una particolare indefessa dignità attraverso il contributo che il “caso” il “fato” il “culo” il “destino” la “sorte” appiccica, non sempre materialmente sul tempo di quelle loro non pavide apparizioni: vedremo casa accadrà… »

In un gioco senza senso, antico quanto me, nuotando, inventavo questo tipo di storie improbabili delle quali il più delle volte non avrei avuto memoria giunto a riva, e che in gran parte, pur trovandole originali e degne di attenzioni letterarie, non utilizzavo per i miei scritti.
Immaginavo?
Ero convinto che la pantegana, espulsa dalla sua comoda tana dimora della Torre di Guevara a seguito di lavori di ristrutturazione tesi, finalmente, a rendere fruibili agli umani i residui dell’antica struttura soggetta a centenarie asportazioni fraudolente, sguazzando senza arte né parte in una melma fluida di gran lunga meno appiccicosa del liquame presente nella sua familiare fognetta interrata, digiuna, ovviamente bagnata, frullata nel precipitato percorso dal cantiere allo scarico a mare, spelacchiata, con la testa dolente, sofferente di continue vertigini, la coda mozza, la pelle maculata per bozzi e piaghe, bitorzoli, tritorzoli, e di certo gonfia d’acqua salmastra penetratale nel ventre attraverso la bocca l’ano e gli altri orifizi, ascoltando il totano erudito, tacesse.
Dopo circa un’ora di variazioni, integrazioni, puntualizzazioni, precisazioni, riferite al tema principale della nuova elucubrazione natatoria avente per soggetti questi due elementi accomunati in una improbabile coppia di acquatici, mi trovai pochi metri dietro il promontorio denominato Punta Pisciazza, sotto il costone che delimita a sud-est la baia di Cartaromana.
Ero quasi giunto in vista della conca che da quel punto si apre senza percettibili soluzioni di discontinuità fino al Castello Aragonese.
L’escursione subacquea mi sembrava appena iniziata anche se avevo le dita bianchicce, spugnate, le mani mollicce, spugnate, i piedi insensibili strizzati nelle pinne tipo rondine extra-large, il naso tumefatto, spiaccicato contro il vetro indeformabile della maschera pinguino nero.
Ogni parte del mio corpo si era conformata in una condizione fisica differente, se non addirittura opposta rispetto allo stato in cui si trovava al momento dell’immersione.
Prima no, prima di scendere in acqua le mie dita, le mani, erano arse, grinzose per le lunghe ore al sole, le narici erano atrofizzate dall’afa, i piedi dolenti per gli impervi percorsi sugli scogli, e non avevo il respiro rumoroso affrettato scomposto ansante a seguito delle apnee lunghe minuti senza fine sfilacciati nell’agguato all’enorme murena che m’era apparsa – intravista – in una fessura di roccia frammista a cespugli di alghe -ondulanti – da cui era formato il fondo del promontorio di Punta della Pisciazza, in direzione della Grotta del Mago lasciata la Baia di Cartaromana.

Per Aurora – volume quinto – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Dedica

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così fu

PARTE 1

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SETTIMO

CAPITOLO OTTAVO

CAPITOLO NONO

CAPITOLO DECIMO

CAPITOLO UNDICESIMO

CAPITOLO DODICESIMO

CAPITOLO TREDICESIMO

PARTE 2

CAPITOLO 1

CAPITOLO 2

Poesia sporca

Poesia sporca

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Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

seconda edizione

Version 5 | ID r99qmg

ISBN 9781471068423

Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Versione 4 |  ID r99qmg
Creato: 31 ago 2022
Modificato: 31 ago 2022
Libro, 100 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm)
Standard Bianco e nero, 60# Bianco
Libro a copertina morbida
Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00

Titolo Per Aurora volume quinto
Sottotitolo Alla ricerca di belle storie d’amore
Collaboratori Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Marchio editoriale Lulu.com
Edizione Nuova edizione
Seconda edizione
Licenza Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
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Per Aurora – volume quinto – Dedica

Per Aurora – volume quinto – Dedica

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Per Aurora – volume quinto – Dedica

Per Aurora
volume quinto

Agosto 2022
Associazione culturale
“Da Ischia L’Arte – DILA”
Bruno Mancini

Edizioni

DILA

Per Aurora volume secondo
BRUNO MANCINI
Dello stesso autore nel catalogo DILA
Poesie
Promo uno
Davanti al tempo
Agli angoli degli occhi
Segni
La Sagra del peccato
Incarto caramelle di uva passita
Non rubate la mia vita
Io fui mortale
Sasquatch
Non sono un principe
La mia vita mai vissuta
Erotismo, sì!
Tutte le poesie
Prose
“Come i cinesi”:
L’estate con la parrucca
Il Libro di Sonia
Ambiguità
Il Nodo.
“Per Aurora”:
L’Appuntamento
Vasco e Medea
Anche questa volta
La Notizia virgola – La Condanna punto
Così o come
La sesta firma
Il furto della foto
La menopausa di mia sorella
Così fu
Per Aurora – Tutti i racconti

Questo volume contiene:

La menopausa di mia sorella

Cosi fu

Seconda edizione, produzione limitata.
Ischia, Agosto 2022.

A Rosalba

Avrebbe riprodotto il mio volto ad occhi chiusi, disegnato le mie mani senza il minimo errore, riconosciuta la mia sagoma anche di profilo, anche di spalle, con la certezza di un istinto ancestrale.

Per Bruno Mancini: brevi commenti amichevoli.
“Percorso di memoria o ricerca di spazi temporali virtuali?”
“Il continuo intersecarsi di livelli di identità con ipotesi e incarnazioni simboliche…”
“…sembrano accarezzare un sogno lontano, una speranza che non sarà mai certezza, un miraggio di felicità che si perde oltre l’orizzonte illusorio di fragili esistenze.”
“…a volte lirismo crepuscolare, intriso di soffusa malinconia, di struggente tristezza.”
“Opera interessante per i contenuti e le tematiche affrontate, nonché per i valori estetici…”
“… seria preparazione, corredata da rimarchevole fantasia.”
“… meditato, armonioso di buon afflato poetico.”
“… sincero, elegante, sempre aderente al soggettivismo letterario del particolare momento che attraversiamo.”
“Non racconto né romanzo, più che risolverli lascia aperti molti quesiti anche sul piano puramente tecnico linguistico.”
“Una prosa lacerata e sfuggente…”
“Le aperture liriche, più che segnare il passo dell’emozionalità, offrono un ulteriore invito a perdersi nei labirinti della parola scritta…”
“Quasi poesia cruda, percuote e carezza, giovane e antica…”
“Lavoro intenso, vissuto nella profondità della sua composizione, fatta di toni e di immagini…”
“Una voce nuova che chiama ad ascoltarla ed a giudicarla senza inibizioni, come liberamente essa è sviluppata.”
“Troverete un urlo e un soffio di amore, un vuoto, immersi nella forza e nella malinconia di chi comprende
che…”
Per Aurora – volume quinto – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

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Dedica

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così fu

PARTE 1

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SETTIMO

CAPITOLO OTTAVO

CAPITOLO NONO

CAPITOLO DECIMO

CAPITOLO UNDICESIMO

CAPITOLO DODICESIMO

CAPITOLO TREDICESIMO

PARTE 2

CAPITOLO 1

CAPITOLO 2

Poesia sporca

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Per Aurora – volume quinto – Vetrina LULU

Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

seconda edizione

Version 5 | ID r99qmg

ISBN 9781471068423

Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Versione 4 |  ID r99qmg
Creato: 31 ago 2022
Modificato: 31 ago 2022
Libro, 100 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm)
Standard Bianco e nero, 60# Bianco
Libro a copertina morbida
Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00

Titolo Per Aurora volume quinto
Sottotitolo Alla ricerca di belle storie d’amore
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ISBN 9781471068423
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CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così fu

PARTE 1

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SETTIMO

CAPITOLO OTTAVO

CAPITOLO NONO

CAPITOLO DECIMO

CAPITOLO UNDICESIMO

CAPITOLO DODICESIMO

CAPITOLO TREDICESIMO

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E allora la bacia con violenza. Sulla bocca trattenendole la testa – come una bambola di pezza -, sul collo comprimendole le guance – come il morso per una cavalla-, sul seno acerbo – strappandole stoffe e bottoni.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo”.
E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
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seconda edizione

Racconti

La menopausa di mia sorella

Così fu

Per Aurora volume quinto prima edizione LULU

prima edizione

Per Aurora volume quinto Le aperture liriche, più che segnare il passo dell’emozionalità, offrono un ulteriore invito a perdersi nei labirinti della parola scritta. Dettagli del prodotto
lulu

Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

Le aperture liriche, più che segnare il passo dell’emozionalità, offrono un ulteriore invito a perdersi nei labirinti della parola scritta.

Dettagli del prodotto
ISBN 978-1-4092-8184-9
Editore Bruno Mancini
Copyright ©2009 Bruno Mancini
Lingua Italian
Paese Italia
Data di pubblicazione 28 marzo 2009

Conto pagine 109 pagine
Formato Commerciale USA
Rilegatura Rilegatura termica

Libro a copertina morbida, 109 pagine
Viene spedito in 3–5 giorni lavorativi
Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

 

 

 

 

 

 

 

 

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

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La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana
Capitolo 1

….mi trovai pochi metri dietro il promontorio denominato Punta Pisciazza, sotto il costone che delimita a sud-est la baia di Cartaromana.
Ero quasi giunto in vista della conca che da quel punto si apre senza percettibili soluzioni di discontinuità fino al Castello Aragonese.

L’escursione subacquea mi sembrava appena iniziata anche se avevo le dita bianchicce, spugnate, le mani mollicce, spugnate, i piedi insensibili strizzati nelle pinne tipo rondine extra-large, il naso tumefatto, spiaccicato contro il vetro indeformabile della maschera “pinguino nero”.

Ogni parte del mio corpo si era conformata in una condizione fisica differente, se non addirittura opposta rispetto allo stato in cui si trovava al momento dell’immersione.

Prima no, prima di scendere in acqua le mie dita, le mani, erano arse, grinzose per le lunghe ore al sole, le narici erano atrofizzate dall’afa, i piedi dolenti per gli impervi percorsi sugli scogli, e non avevo il respiro rumoroso affrettato scomposto ansante a seguito delle apnee lunghe minuti senza fine sfilacciati nell’agguato all’enorme murena che m’era apparsa – intravista – in una fessura di roccia frammista a cespugli di alghe -ondulanti – da cui era formato il fondo del promontorio di Punta della Pisciazza, in direzione della Grotta del Mago lasciata la Baia di Cartaromana.

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parigi mirna & chris 391

Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

Capitolo terzo

Quasi a fuggire da questi nuovi e vecchi invadenti ed inopportuni pensieri, effettuai di botto un profondo respiro, spinsi la testa sottacqua, ruotai il capo verso il basso, e, dando un deciso colpo di pinne, mi lasciai cadere nella profonda fenditura tra due masse rocciose.

Nel chiarore indeciso delle strisce di sole che, penetrando i circa otto metri di profondità, in una prospettiva parevano sciamare entro gruppi aghiformi tra i filari delle posidonie, mentre invece, in un angolo opposto, squarciavano il fondale trafiggendo l’incastro della falda sulla scogliera, come un fantasma di pura luce, seguendo la corrente sottomarina con un docile movimento a pendolo che non ne spostava granché la posizione, un fantastico enorme agglomerato, perfettamente mimetizzato tra le rare pietre, le variegate alghe, e gli spigoli di sabbia, giaceva come un polpo.

Un polpo?
Una piovra!

Otto metri circa sotto di me, un polpo di dimensioni mai prima affrontate sbatacchiava fra i suoi enormi tentacoli una macchia nerastra simile ad una delle rotondeggianti rocce laviche stracciate dai bordi del magma solidificato.

A meno che non si fosse trattato di un riccio gigante o di un grappolo di cozze, la macchia non mi sembrava giustificata in quel luogo.
Non ebbi in mente altre ipotesi.
Neppure che potesse trattarsi di un totano.
Le pulsazioni m’incalzavano risucchiando quanto più ossigeno possibile dai polmoni, l’adrenalina mi eccitò rendendo secchi e decisi i movimenti con i quali proseguii la discesa, gli occhi sbarrati dietro il vetro perlato della maschera molto compressa sulla faccia puntarono il centro dell’ammasso spiaccicato indifeso sul fondo, la mano destra strinse l’asta d’acciaio del tridente fino a procurarmi dolore per l’improvvida compressione, il braccio sinistro si mosse a cavare il pugnale dalla guaina legata al polpaccio.

Non ebbi un pensiero.
Che fosse un totano.

.Per Aurora volume quinto di Bruno ManciniPer Aurora volume quinto di Bruno Mancini

Così fu

PARTE 1

Capitolo 1

Ieri.
Soltanto ieri.
Finalmente, ho carpito dalle grinfie avide dei mercenari acquattati in ogni dove al soldo d’invadenti multinazionali, i tempi ed i modi per una voluta prigionia, ed ho serrato le porte nell’attesa di muovermi verso i luoghi delle mie origini.
Metaforicamente, praticamente, completamente.

L’assalto continuo, attraverso proposte indicanti modi d’essere adeguati agli inutili prodotti che i padroni universali del commercio e dei servizi inviano a pioggia di grappoli dai contorni impalpabili come foschia estiva di primo mattino, assume virulenze epidemiche una volta giunto a contatto con le blande aspirazioni di tranquillità e di serena assuefazione al ritmo quotidiano proprie di esistenze vissute senza sprechi e prive di inutili orpelli.

Semplici, essenziali, autonome.

Le menzogne ballerine, create ad immagine di lusinghe dai loro maghi prezzolati, saltellano allegramente ben oltre ogni perdonabile entusiasmo, frattanto che abbattono ostacoli a forma di evanescenti birilli ed ideologie di carta straccia, male, o per niente, supportate da nervose manovre atte a ripristinare condivisibili pretese di libertà individuali.

Senza ritrosie, in ragione della forza amorale ricevuta dalle loro strutture interdipendenti, superano, con vigliacca disinvoltura gli specifici spessori delle singole vite incontrate lungo le vie che percorrono.

Ne deriva una complessa organizzazione della socialità immemore dei suoi stessi scopi istitutivi.

Mentre srotola piacevolezze esistenziali frammiste ad essenziali bisogni cognitivi ed impellenti necessità comunicative, essa, la falsa dignità universale – quella degli uomini invisibili oltre le cortine delle organizzazioni finanziarie, quella degli innominabili padroni del vizio e della schiavitù dei deboli, quella dei tizi in doppio petto sproloquianti in pubblico senza cuori brucianti all’interno del torace per giustizia ed uguaglianza, quella di tutti gli uomini animali da sé stessi assurti a mortificanti auto glorificazioni, quella dei nuovi Dei, meschini e blasfemi – essa la falsa dignità universale accaparra, tutto intero, senza pentimenti, l’indivisibile legame tra le vite ed i singoli uomini.

Non ero convinto che fosse sufficiente, ma limitare il raggio di azione dei miei giorni futuri nel perimetro, orto compreso, di una vecchia casa colonica, mi era apparso il sistema più agevole per tentare la metempsicosi spirituale che intendevo costruire tra il mio passato ed il mio futuro…
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parigi mirna & chris 281

Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

Così fu

PARTE 1

Capitolo 11

Prima di partire da Roma avevo prenotato l’alloggio presso un albergo di costruzione recente situato sullo sperone sporgente al confine tra la baia di Cartaromana ed il promontorio di Punta San Pancrazio.

Una scelta non casuale ma voluta per il desiderio di una notte serena, di silenzio assoluto infranto unicamente dalla risacca, dagli sbuffi dello scirocco lungo le pendici della collina ricoperta da ginestre (ginestra, fiore amato dalla mia donna) in piena fioritura, e da qualche sporadico monotono rimbalzare dei richiami che forse i grilli, forse le prime cicale, forse i gatti in amore, forse gli uccelli notturni, forse i roditori, avrebbero utilizzato per riconoscersi e difendersi.

Aspettando che mi fosse servita la cena al tavolo sulla terrazza a strapiombo sul mare, ho chiesto un gin tonic ed un sacchetto di anacardi, mi sono seduto nell’angolo meno illuminato, ho allungato le gambe poggiando i piedi tra i ghirigori formanti il disegno della ringhiera a pelo del baratro, ho socchiuso gli occhi, mi sono chiesto fino a che punto sarei stato in grado di ricordare, ricostruire, collegare, ed ho così iniziato il conto alla rovescia che avrebbe mutato il senso della mia vita portandomi, mediante una consapevole decisione, adesso a scriverne, ed in seguito ad indirizzarmi verso conclusioni difficili, ma ancora una volta coerenti con i sentimenti ai quali non ho mai inteso rinunziare…

Info: Bruno Mancini
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DILA

Premi Otto milioni

Per Aurora – volume quarto – Poesie dei sogni

Per Aurora – volume quarto – Poesie dei sogni

Poesie dei sogni

PARTE QUARTA

Poesie dei sogni

Non rubate la mia vita

Di Capri un po’

Quipo

Non rubate la mia vita

Un sorriso di mare smeraldo
un profumo di ortensia maculata
lo scampanare di turisti pascolanti
lo sciacquio di graniti biancastri,

TEMPO,

la sposa non mi chiede altro
i miei ingorghi pazienteranno ancora
tra un’onda senza fine al tramonto
nel poggio di agrumi e di ninfee.

Non rubate la mia vita,
prendete i sogni.

 

Di Capri un po’

Enorme scoglio brullo,
come le scorze ruvide
di angurie tropicali
a chiazze agrumate
sbuffate in macchie di ghepardi:
di Capri un po’.

Zaino seta fardello,
dagli aculei stemmi americani
tesi tra bordi sfilacciati
fruscianti
un’unghia sotto le nuche rasate:
di Capri un po’.

Telo d’intrecci esotici,
per gli occhi degli sciami giapponesi
ombreggiati dal sol levante
filato
sulle falde dei berretti:
di Capri un po’.

Progenie umana dell’isola di tutti,
contemplo
insieme alla sposa di sempre
il dolce silenzio dei nostri sogni.

 

Quipo

Un quipo peruviano
intrecciato
-sfilacci di ginestre
precolombiane lane
papiri, betulle e cordicelle marinaresche -,
dai nodi scuriti,
adagiato
sul banco di cristallo.
Due pietre turchine come il mare di Capri
due passi prima della Certosa
due passi dopo il lusso della nostra fuga.
Il sorriso dell’uomo padrone
esalta
l’anello che oggi ci sposa,
ancora.
Guardiamo affascinati
mimi imbiancati immobili all’angolo del bar,
udiamo incantati
dal loro talamo di legni attintati
sgorgare il suono girovago di un
violino tzigano.
Voliamo
da soli voliamo
come il vento tenero dei passeri
la mano nella mano
voliamo
insieme voliamo
fin giù nei giorni conosciuti
negli anni innamorati
voliamo
coribanti voliamo
fin su nel tempo che ci appartiene

in assolato controluce
voliamo
mentre
l’ovulo di antiche zolle
pigia profondo nel mio petto,
alla radice,
e soffia sui semi sommersi
dei tuoi intimoriti ritorni,
profondo.

Voglia,
sotto un manto di stelle di Tragara
con il dolce tepore di una tarda primavera
nel profumo lontano della magnolia in
fiore
tra il silenzio delle lucertole striscianti sui
sassi,
voglia
il prossimo sonno
renderci liberi dai sogni!

FINE

 

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“Per Aurora volume quarto”.

seconda edizione.

Agosto 2022

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Dedica

Il furto della foto

PARTE PRIMA

Agosto

PARTE SECONDA

Primo giorno

Secondo giorno

Terzo giorno

Quarto giorno

Quinto giorno

Sesto giorno

Settimo giorno

Ottavo giorno

Nono giorno

Decimo giorno

Undicesimo giorno

PARTE TERZA

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

PARTE QUARTA

Poesie dei sogni

Per Aurora – volume quarto – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

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Per Aurora – volume quarto – Vetrina LULU

Per Aurora volume quarto di Bruno Mancini

seconda edizione

ID 4wwn72

ISBN 9781471072789


Bruno Mancini
ISBN 978-1-4710-7278-9
Versione 2 | ID 4wwn72
Creato: 28 ago 2022
Modificato: 29 ago 2022
Libro, 89 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm)
Standard Bianco e nero, 60# Bianco
Libro a copertina morbida
Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00


Informazioni sul copyright
Revisiona le informazioni sul copyright
Titolo Il furto della foto di Maradona
Sottotitolo Per Aurora volume quarto
Collaboratori Bruno Mancini
ISBN 978-1-4710-7278-9
Marchio editoriale Lulu.com
Edizione Originale digitale
Seconda edizione
Licenza Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
Titolare del copyright Bruno Mancini
Anno del copyright 2022

Descrizione
Fatti e misfatti realmente accaduti, ma un po’ romanzati
Note sui collaboratori (1454 / 2500)
Per Bruno Mancini: brevi commenti amichevoli.
“Percorso di memoria o ricerca di spazi temporali virtuali?”
“Il continuo intersecarsi di livelli di identità con ipotesi e incarnazioni simboliche…”
“…sembrano accarezzare un sogno lontano, una speranza che non sarà mai certezza, un miraggio di felicità che si perde oltre l’orizzonte illusorio di fragili esistenze.”
“…a volte lirismo crepuscolare, intriso di soffusa malinconia, di struggente tristezza.”
“Opera interessante per i contenuti e le tematiche affrontate, nonché per i valori estetici…”
“… seria preparazione, corredata da rimarchevole fantasia.”
“… lavoro meditato, armonioso di buon afflato poetico.”
“… sincero, elegante, sempre aderente al soggettivismo letterario del particolare momento che attraversiamo.”
“Non racconto né romanzo, più che risolverli lascia aperti molti quesiti anche sul piano puramente tecnico linguistico.”
“Una prosa lacerata e sfuggente…”
“Le aperture liriche, più che segnare il passo dell’emozionalità, offrono un ulteriore invito a perdersi nei labirinti della parola scritta…”
“Quasi poesia cruda, percuote e carezza, giovane e antica…”
“Lavoro intenso, vissuto nella profondità della sua composizione, fatta di toni e di immagini…”
“Una voce nuova che chiama ad ascoltarla ed a giudicarla senza inibizioni, come liberamente essa è sviluppata.”
“Troverete un urlo e un soffio di amore, un vuoto, immersi nella forza e nella malinconia di chi comprende che…”

Per Aurora volume quarto

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Racconti
Il furto della foto.
Poesie dei sogni

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Per Aurora volume quarto

Info: Bruno Mancini
Cell. 3914830355 tutti i giorni dalle 14 alle 23
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Per Aurora – volume quarto – Capitolo quarto

Per Aurora – volume quarto – Capitolo quarto

Capitolo quarto

PARTE TERZA

I sogni

Capitolo quarto

Bruno: -«Ora che sapete tutto non mi sembra essenziale continuare a tediarci con queste malinconiche divagazioni.
Con tanti interessi che non riusciamo a soddisfare, gingilliamo la puerile infermità d’intrattenerci raccontando simili personalistici abbandoni nostalgici.
È proprio vero che si ritorna bambini quando il tempo rende maturi grappoli di esperienze estreme.
Infantili, ingenui.
Ad otto anni “c’era una volta la fata turchina”, a trenta il “lupo cattivo”, e, dietro l’angolo, alla mia età “il mitico Maradona” assurge a fulcro, non solo dell’assurdo racconto di un folle amore, ma di un turpe inganno e di un giusto suicidio.
Nei miei precedenti interventi la comunicazione si è protratta con approcci apparentemente non omogenei, disuniti, privi di filo conduttore, disarticolati, finanche arroganti nella sfacciata indifferenza verso la tua disponibilità.
Quindi, intendo fare ammenda spostando su un diverso obiettivo il bersaglio offerto dalle mie sciocchitudinanti notturne ricerche di
“Le belle storie d’amore”.
Io non sono la pioggia che bagna i teneri germogli delle melanzane e dei pomodori, né il microfono utilizzato nel mitico assalto all’Indipendiente o lo speaker della notte scura di Sonny Liston, non sono il regista dell’indimenticabile Ungaretti e neppure l’autore di papaveri e papere.
Io non sono il vostro padre pio con le sofferenze non curate.
Tutto altro.
Carnefice.
Giacobino, gesuita, stalinista, mi sono interessato unicamente del mio presente futuro.
Un nuovo ricamo per
“Le belle storie d’amore”
e giunto al termine, ma ormai non potrai evitare a te stessa di bere il calice… »
Aurora: -«Avvelenato?»
Bruno: -«Mai. Sempre un confronto leale.
Il calice del giudizio finale.
Il mio piacere è servire le idee e le frasi che voglio, il tuo diritto è scegliere un altro autore.
Ma questa è l’apparenza?
Forse la realtà è nascosta da una lacca lucida e non trasparente che mi sono imposto di spalmare su questa futile storia di quotidianità provinciale per, per cosa sennonché per l’unico, irriducibile quanto malsano, tanto prorompente quanto disconosciuto, desiderio di…»
Aurora: -«È più comune -consueto- che si alzino gli cchi al cielo per seguire il tragitto di un elicottero, in special modo se ci si ritrova in una notte di luna su una spiaggia del mar Tirreno, piuttosto che ammirate il cielo stellato durante la grigliata notturna di ferragosto per confrontare la parità della nostra minima esistenza con l’immensa indeterminatezza di tutto quanto ci circonda, ci permea, ci ingloba.
Se oggi, nella piazza grande del paese marinaresco trasformata in arena -riflettori e suoni a centomila, giovani accalcati, vocianti, frementi, impazienti-, per tutta la sera di quest’ultimo giorno d’agosto -i temporali pronti a scatenare putiferi di lampi e tuoni-, un mitico gruppo rock si esibisse dal vivo (unica tappa in Europa, biglietti introvabili, bagarini arricchiti, rampolli di uomini importanti accanto ai figli dei fiori)-, e se d’improvviso crollasse il palco -mille metri quadrati, struttura avveniristica montata e smontata in due amen, orgoglio e vanto del principale produttore mondiale di scenografie stupefacenti-, e se anche, se come, se tutto ciò che vuoi… se un uomo sconosciuto continuasse a suonare in un angolo appartato, con il trombone di Vic Dickenson il brano Cryn’ out my heart for you (di Hopkins), tu credi che qualcuno vorrebbe sapere chi sia o chi non sia il solitario sconosciuto e tenterebbe di abbracciarlo?
È più comune -consueto- attendere il miracolo, che non riconoscerlo nell’istante di un suo avvento non programmato.
L’amore del popolo napoletano verso Diego Armando Maradona è stato lo sguardo al cielo stellato, ed allo stesso tempo, il personale esclusivo abbraccio al solitario sconosciuto suonatore di tromba.
Diego Armando Maradona, in piena autonomia, aveva eletto il Suo Popolo Napoletano alla dimensione di un Mito.
Il Suo Mito.
Un mito d’amore.
È vero.
Nella storia dei grandi avvenimenti pubblici e sociali, quasi mai ci si è trovati di fronte ad un reciproco amore tra l’autorevole emblema e la spontanea sudditanza.
O l’una o l’altra.
È anche vero che la mia promessa di indulgenza attiene ai protagonisti di
“Le belle storie d’amore”,
ma questa volta mi hai sorpresa ed imbarazzata.
Non posso negare di essere stata coinvolta dallo svolgimento dei fatti narrati, ma ugualmente non posso ammettere di essere in grado d’identificare gli autori delle azioni maggiormente significative.»
Bruno: -«Perché vuoi essere selettiva, se il cielo è stellato, le stelle formano il cielo.
Il popolo di Napoli è la fonte dell’amore.
La gente di Napoli si è chiesta di essere il popolo di Diego.»
Aurora: -«I contrabbandieri di Santa Lucia, i femminielli dei Gradoni di Chiaia, i mariuoli dei Cagnazi, gli avvocati dei Quattro Palazzi, i politici di Piazza Municipio, i cozzicari di Mergellina, i pescivendoli, i medici, gli ambulanti, bambini e mamme ciascuno per proprio conto?»
Bruno: -«Esatto loro, i contrabbandieri di Santa Lucia, i femminielli dei Gradoni di Chiaia, i mariuoli dei Cagnazi, gli avvocati dei Quattro Palazzi, i politici di Piazza Municipio, i cozzicari di Mergellina, i pescivendoli, i medici, gli ambulanti, bambini e mamme ciascuno per proprio conto»
Aurora: -«Sei folle: Folle ed impudente.
Ti ho elevato a paladino dei protagonisti di
“Le belle storie d’amore”,
e dopo alcune scelte ben riuscite, per esempio la coppia di “L’Appuntamento”, ecco che ti presenti, sfacciato, folle, e proponi di elevare addirittura un intero popolo al rango ed ai benefici di “Eletto Per Amore”.
Ed hai creduto…
Uomini donne e finanche bambini d’equivoci comportamenti…»
Bruno: -«Si può essere la peggiore canaglia, un pessimo esempio di sfacciata arroganza, il postino delle nostre calamità, il massimo intruglio di malefici e malvagità, la carogna delle carogne, un distillato delinquenziale oppure il nettare avvelenato, la iattura personificata, la madre di Cogn, la figlia di …, Bash, il figlio di Giuda, il fratello di Abele, un vecchio inquisitore, Gambadilegno, Diabolik, l’anello forte della forca, la lama della ghigliottina, la polvere radioattiva, il pattume industriale, chi ruba la mia vita, ma, se hai amato una volta nella vita, Amato con la A maiuscola -e Diego è stato da loro Amato, Amato con la A maiuscola-, allora la redenzione non solo è possibile, quanto, ne converrai, addirittura certamente auspicabile.»
Aurora: -«Solo quando avrò smesso di seguire le tue follie, mi lascerò andare ad un’analisi approfondita dei miei comportamenti snaturati.
Solo quando avrò smesso di accettare la speranza come forza motrice di giustizia ed umanità -la tua scelta-, potrò comprendere se sia più saggio guardare il cielo stellato nell’impotenza di una notte d’agosto, oppure seguire il volo di un elicottero per essere attenta a prestare un eventuale soccorso.
Solo quando avrò smesso di accettare la tua categorica supremazia dell’amore, saprò infine decidere se voler essere completamente umana.
Il Popolo ha vinto.
Il Popolo è.
Il Popolo Napoletano è nominato
“POPOLO D’AMORE”.
Diego Armando Maradona ha vinto.
Diego Armando Maradona è.
Diego Armando Maradona è nominato
“PIBE D’AMORE”.
E tu, Petrus, fai brillare il cielo con i fuochi pirotecnici dell’antica Piedigrotta, riempi le strade e le piazze di pazzarielli, scugnizzi, carnacottari e tutti i genuini figli della tradizione popolare partenopea.
Voglio sentire fremere le passioni, accecate dai raggi del sole napoletano, salmastre come il mare a Posillipo, profumate come le ginestre dei Camaldoli (ginestra fiore amato dalla sua donna), dolci come l’uva del Vesuvio e vellutate come le ali dei gabbiani in volo radente sugli scogli di Mergellina.
Poi chiedi che l’uomo dal fiore all’occhiello suoni la nostra musica napoletana, ‘O sole mio, Maria Marì, Indifferentemente, per convincere Il nostro amico Bruno, da noi oggi eletto
“POETA DELLA VITA”
a non lasciarci prima di aver regalato alla nostra notte di follia la recitazione delle sue ultime tre
“POESIE DEI SOGNI”.
Brindate tutti a questo evento!
… E tu… bevi una birra gigantesca. »

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Modificato: 29 ago 2022
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Titolo Il furto della foto di Maradona
Sottotitolo Per Aurora volume quarto
Collaboratori Bruno Mancini
ISBN 978-1-4710-7278-9
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Seconda edizione
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Anno del copyright 2022

Descrizione
Fatti e misfatti realmente accaduti, ma un po’ romanzati
Note sui collaboratori (1454 / 2500)
Per Bruno Mancini: brevi commenti amichevoli.
“Percorso di memoria o ricerca di spazi temporali virtuali?”
“Il continuo intersecarsi di livelli di identità con ipotesi e incarnazioni simboliche…”
“…sembrano accarezzare un sogno lontano, una speranza che non sarà mai certezza, un miraggio di felicità che si perde oltre l’orizzonte illusorio di fragili esistenze.”
“…a volte lirismo crepuscolare, intriso di soffusa malinconia, di struggente tristezza.”
“Opera interessante per i contenuti e le tematiche affrontate, nonché per i valori estetici…”
“… seria preparazione, corredata da rimarchevole fantasia.”
“… lavoro meditato, armonioso di buon afflato poetico.”
“… sincero, elegante, sempre aderente al soggettivismo letterario del particolare momento che attraversiamo.”
“Non racconto né romanzo, più che risolverli lascia aperti molti quesiti anche sul piano puramente tecnico linguistico.”
“Una prosa lacerata e sfuggente…”
“Le aperture liriche, più che segnare il passo dell’emozionalità, offrono un ulteriore invito a perdersi nei labirinti della parola scritta…”
“Quasi poesia cruda, percuote e carezza, giovane e antica…”
“Lavoro intenso, vissuto nella profondità della sua composizione, fatta di toni e di immagini…”
“Una voce nuova che chiama ad ascoltarla ed a giudicarla senza inibizioni, come liberamente essa è sviluppata.”
“Troverete un urlo e un soffio di amore, un vuoto, immersi nella forza e nella malinconia di chi comprende che…”

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Per Aurora – volume quarto – Capitolo terzo

Per Aurora – volume quarto – Capitolo terzo

Capitolo terzo

PARTE TERZA

I sogni

CAPITOLO TERZO

Aurora: -«Chiamate Petrus. Introduca il secondo sogno. Presto.»
Petrus: -« Sono qua.
Sono qua.
Devo ripetere. Questa che ascolterete è la fedele ricostruzione del secondo sogno.
Era la notte tra il sabato 14 Agosto la Domenica 15 Agosto.
Dalle ore 3.33 alle ore 3.42.
Sogno quindi successivo alla famosa telefonata.
Nessuno ne era ancora informato, ma Ignazio si era ormai già suicidato.
Tom descriverà la scena.
Edith raffigurerà la nonna Cristina.
Edoardo ripeterà le frasi dette dal nostro amico.
Ho operato al meglio per non omettere alcun particolare.
Una precisazione: se credete opportuno vi mostrerò l’autorizzazione alla divulgazione che Cristina si è premurata di inviarmi con un affettuoso messaggio per e-mail. Esso dice: “La tua insostituibile perspicacia… »
Aurora: -«Petrus, non ora, sii gentile.
Dai inizio al secondo sogno.»
Petrus: -«Va bene, va bene, subito… però anch’io sono anima, e se Cristina mi considera “Il paladino dei nostri…»
Aurora: -«Smettila.»
Petrus: -«Ho fatto un buon lavoro!
Posso avere sul tavolo una Falanghina giovane-giovane? La Falangina è un vino, cosa avevate pensato, porcelli? Grazie. »

Il secondo sogno

Tom: -«Nello stesso luogo del primo sogno, questa volta mostrando il viso dagli occhi spaziosi e leggermente arcuati verso il basso, lo sguardo dolce, le mani curate ed ingentilite da dita affusolate con unghie laccate di rosso vivace, avvolta sulle braccia da uno scialle di seta nera che era stato da lei stessa ricamato all’uncinetto, Cristina si stringeva le dita congiunte all’altezza delle ginocchia.
Immerse il suo sguardo negli occhi del nipote come se egli fosse stato il signore dei suoi pensieri, sciolse, dal nodo di dolore, una mano dall’altra, accarezzandogli le guance come ad un bimbo che dorma… »
Edith: -«Piccirì, la telefonata che ti abbiamo indotto a fare, ora ha già conseguito gli effetti da noi auspicati (la fine della vita terrena del lurido individuo).
Posso annunziarti la morte di Ignazio.
Suicida.
Edoardo: -«Ignazio?
Suicida?
Che c’entra mio fratello Ignazio?»
Edith: -«Ignazio, l’autore del furto, non era tuo fratello, non lo era mai stato, né da parte di padre, né tanto meno da parte di tua madre.
Parlo con il loro consenso.
Tua madre tramite me ha inteso regalarti questo squarcio di verità.»
Edoardo: -«Non è… ed io… Nonna che dici!»
Edith: -«Lo so, tu gli avevi creduto in buona fede.»
Bruno: -«Ma se anche Aurora… »
Edith: -«Tu, e non da solo, gli avevi creduto, in buona fede.
Non ha ingannato solo te.
Indurre in errore Aurora, la Signora, è stato il suo capolavoro.
Non era mai accaduto che un mortale riuscisse ad ingannare “La Signora”.
Non solo a mia memoria.
Anche Petrus è stato di questa opinione.»
Edoardo: -«Cosa posso fare?
Sono distrutto.
Non ho perso un fratello indegno, ma ho trovato un inganno devastante per la morale della mia vita.»
Edith: -«Non devi considerarlo un disonore.
È stata solo leggerezza.
Ti sarebbe bastato ricordare l’affetto di tua madre per te, per essere certo che lei non avrebbe vissuto un solo attimo sapendoti lontano.
Un figlio vale l’altro.
Per una mamma.
Come avrebbe potuto privarsi di un tuo fratello?»
Edoardo: -«Perdono, perdonami…”
Edith: -«Non piangere, sciocco, già fatto.
Da sempre.
Le mamme non “hanno” figli, le mamme “SONO” i loro figli.
E smettila di affliggerti, siamo vivi, come canta per me Vasco ogni volta che gli racconto la tua infanzia.
Ignazio non era tuo fratello, tanto meno gemello.
L’uomo che l’aveva adottato era un gerarca nazista la cui sterilità, dovuta ad una ferita sul campo di battaglia, non costituiva un segreto per i ranghi alti della sua struttura militare.
La moglie, smaniosa ed esuberante, pur rassegnata ad una vita monacale, gli chiedeva con insistenza un figlio e Lui
“Un figlio? Come si fa?
Tu conosci bene la mia limitazione.”
Lei “Io lo faccio di nascosto con un altro uomo”.
Lui “Peggio, tutti al Comando sanno della mia impotenza.” Lei “Lo faccio di nascosto e poi…”
Lui “Che diavoleria hai architettato?”
E lei: -“… e poi fingiamo di adottarlo.
Ci sarà un soldato senza pretese che accetterà di rendermi madre?
Un medico corrotto che assegnerà il frutto della mia maternità ad un’altra donna?
Una spregiudicata poveretta che per una cifra concordata rimarrà segregata in casa durante tutto il tempo della mia gestazione?
Ci saranno.
La donna prezzolata fingerà, infine, di lasciarmi adottare il figlio che non avrà mai generato, ma che io avrò partorito. Ci saranno!”
Tutto filò liscio fino a pochi giorni prima del momento della finta adozione.
La donna poveretta assoldata per l’inganno, morì improvvisamente.
Il gerarca ormai non poteva rinunziare al suo piano, oltre a tutto per non compromettere l’onore suo e della moglie con uno scandalo.
Disperato, con prepotenza e minacce, impose a tuo padre, avendo saputo che tua madre era pronta a partorire, di fingere la nascita di due gemelli, uno dei quali, il figlio della moglie e del soldato, sarebbe stato immediatamente adottato da loro.
Così sono andate le cose.
Il figlio naturale della moglie e del soldato compiacente, battezzato Ignazio, fu ufficialmente dichiarato figlio di tua madre (quindi tuo fratello gemello), per essere, dopo un breve periodo, adottato da loro.
Tuo padre non poté ribellarsi e non era in grado di opporre rifiuto.
In quel disgraziato periodo noi combattevamo le nostre guerre in opposizione alla fame ed alle bombe, ma non avevamo i mezzi per batterci contro le sopraffazioni delle deportazioni che criminali fascisti e nazisti usavano deliberare verso chiunque non seguisse le loro disposizioni.
Così sono andate le cose.
Così tu, per la gente, sei nato con un gemello che non esiste.
Il bimbo della tedesca è diventato tuo fratello per inganno, corruzione e necessità di sopravvivenza.
Tua madre, una santa, sempre pronta a sacrificarsi per tutti, accettò di far credere che acconsentiva all’adozione di un suo figlio per impedire che tuo padre fosse deportato. Necessità di sopravvivenza.
Privarsi di un suo figlio!
L’avrebbero dovuto prima torturate, poi squartare, infine uccidere a martellate sulla testa e nell’utero.
Avresti potuto comprenderlo, ma non importa.
Così sono andate le cose.»
Edoardo: -«Nonna, aiutami, dammi una speranza.»
Edith: -«Piccirì, non trasformare una giustizia in un’emozione.
Non fare il Poeta.
Tu, sei la tua speranza, tu ed i tuoi affetti, tu e la tua dignità.
Accontentati, non è poco!
Se proprio lo desideri, la tua purificazione avverrà andando a Capri in compagnia di Gilda.
Lì in tre giorni, per
“LA POESIA DELLA VITA”,
in un particolare ed irripetibile abbandono fra bellezze e sentimenti scriverai
“TRE POESIE DEI SOGNI”.
Dimenticando Ignazio.
Egli non è mai valso un attimo della tua esistenza.
Ah! Senti, prima che te ne vai, mi aggiusteresti il lume sul comodino?
A volte non funziona, si accende e si spegne da solo.
Si accende e dopo poco si spegne e si accende da solo.
Tuo nonno non sta mai fermo.
Si gira e si volta nel letto, continuamente.
Muoviti oggi muoviti domani, l’ha rotto.
Ma se non hai tempo non fa niente.»

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“Il continuo intersecarsi di livelli di identità con ipotesi e incarnazioni simboliche…”
“…sembrano accarezzare un sogno lontano, una speranza che non sarà mai certezza, un miraggio di felicità che si perde oltre l’orizzonte illusorio di fragili esistenze.”
“…a volte lirismo crepuscolare, intriso di soffusa malinconia, di struggente tristezza.”
“Opera interessante per i contenuti e le tematiche affrontate, nonché per i valori estetici…”
“… seria preparazione, corredata da rimarchevole fantasia.”
“… lavoro meditato, armonioso di buon afflato poetico.”
“… sincero, elegante, sempre aderente al soggettivismo letterario del particolare momento che attraversiamo.”
“Non racconto né romanzo, più che risolverli lascia aperti molti quesiti anche sul piano puramente tecnico linguistico.”
“Una prosa lacerata e sfuggente…”
“Le aperture liriche, più che segnare il passo dell’emozionalità, offrono un ulteriore invito a perdersi nei labirinti della parola scritta…”
“Quasi poesia cruda, percuote e carezza, giovane e antica…”
“Lavoro intenso, vissuto nella profondità della sua composizione, fatta di toni e di immagini…”
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Per Aurora – volume quarto – Capitolo secondo

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PARTE TERZA

I sogni

CAPITOLO SECONDO

Aurora: -«Furono confermati i presagi?»
Bruno: -«Sì.»
Petrus: -«Confermo… »
Aurora: -«Che confermi tu… non occorre il tuo “confermo”.
Non ora.»
Petrus: -«Chiedo scusa, non volevo offendere.
Forse è preferibile che mi allontani qualche minuto.
Se mi volete sono al bar.»
Aurora: -«Tutti o in parte?»
Bruno: -«Tutti.»
Aurora: -«Intendi dire che incontrasti un giovanotto con i pantaloni rossi ecc. poi una bimba dagli occhi azzurri e dai capelli d’oro ecc. poi ancora sotto il tappo della birra ecc. ed infine il 33 vincente alla roulette?»
Bruno: -«Così fu.»
Aurora: -«Certo, per l’autorevolezza della immacolata Cristina, l’eccezionalità della tensione fisica e morale a cui eri sottoposto in quel periodo, la rispondenza dei presagi con i fatti, non potevi agire diversamente.
La telefonata andava effettuata. In quei termini ed in quel modo.»
Bruno: -«Posso solo precisare che nonna Cristina non si era decisa ad agire né per favorire se stessa, né per gratificare me, suo amato nipote, bensì in difesa della integrità morale dell’intera collettività raggirata ed offesa dalle spudorate falsità con le quali lui, Ignazio di Frigeria e d’Alessandro, negli anni l‘aveva abbindolata.
Ignazio di Frigeria e d’Alessandro, allo scopo di carpire qualche beneficio dalle finte amicizie artatamente create, non si era fermato davanti a nessun limite morale ed all’autorità di nessuna entità.
Neppure una donna angelica di none e di fatto come Cristina era riuscita a contenere la rabbia provocata dalla notizia della nuova sacrilega azione commessa dall’immorale individuo.
Aurora: -«Sospettando ci fossero elementi sfocati nello schema globale della tua storia, avevo affermato che le assunzioni di responsabilità quasi mai corrispondono a calcoli ignobili o disdicevoli, ecco la prova.
Però.
C’è ancora un però.
Gli affetti perduti per sempre (Ignazio di Frigeria e d’Alessandro, nel bene e nel male, era pur sempre tuo fratello gemello) quasi mai si lasciano obnubilare oscurati da altrui ideali.
Altri però.
Perché non hai partecipato alle onoranze funebri?
Perché non sei rimasto sconvolto alla notizia del suo suicidio?
Perché non hai avuto alcuna reazione di sorpresa?
Perché dimostri nei suoi confronti sentimenti tutt’altro che affettuosi, e ciò ben oltre la legittima delusione per un gesto che del resto già sapevi appartenere alla normalità della sua vita sciagurata?
Molti però.
Cosa intendi con “in difesa della integrità morale dell’intera collettività”?
E con “non si era fermato davanti a nessun limite morale ed all’autorità di nessuna entità”?
Moltissimi però.
Tutti sapevamo che Ignazio di Frigeria e D’Alessandro, tuo gemello naturale, era un poco di buono, sotto tutti i punti di vista, ma un affetto fraterno come il tuo, che aveva superato pietosamente innumerevoli contrasti, perché in questa circostanza, al solo nuovo risvolto di saperlo ladro della foto di Maradona, ha mostrato una pietà inesistente, se non addirittura una soddisfazione per la tragica fine?
Troppi però.»
Bruno: -«Ormai hai deciso di andare fino in fondo, ebbene, ascoltiamo il secondo sogno.»

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Dedica

Il furto della foto

PARTE PRIMA

Agosto

PARTE SECONDA

Primo giorno

Secondo giorno

Terzo giorno

Quarto giorno

Quinto giorno

Sesto giorno

Settimo giorno

Ottavo giorno

Nono giorno

Decimo giorno

Undicesimo giorno

PARTE TERZA

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

PARTE QUARTA

Poesie dei sogni

Per Aurora – volume quarto – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

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Per Aurora – volume quarto – Vetrina LULU

Per Aurora volume quarto di Bruno Mancini

seconda edizione

ID 4wwn72

ISBN 9781471072789


Bruno Mancini
ISBN 978-1-4710-7278-9
Versione 2 | ID 4wwn72
Creato: 28 ago 2022
Modificato: 29 ago 2022
Libro, 89 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm)
Standard Bianco e nero, 60# Bianco
Libro a copertina morbida
Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00


Informazioni sul copyright
Revisiona le informazioni sul copyright
Titolo Il furto della foto di Maradona
Sottotitolo Per Aurora volume quarto
Collaboratori Bruno Mancini
ISBN 978-1-4710-7278-9
Marchio editoriale Lulu.com
Edizione Originale digitale
Seconda edizione
Licenza Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
Titolare del copyright Bruno Mancini
Anno del copyright 2022

Descrizione
Fatti e misfatti realmente accaduti, ma un po’ romanzati
Note sui collaboratori (1454 / 2500)
Per Bruno Mancini: brevi commenti amichevoli.
“Percorso di memoria o ricerca di spazi temporali virtuali?”
“Il continuo intersecarsi di livelli di identità con ipotesi e incarnazioni simboliche…”
“…sembrano accarezzare un sogno lontano, una speranza che non sarà mai certezza, un miraggio di felicità che si perde oltre l’orizzonte illusorio di fragili esistenze.”
“…a volte lirismo crepuscolare, intriso di soffusa malinconia, di struggente tristezza.”
“Opera interessante per i contenuti e le tematiche affrontate, nonché per i valori estetici…”
“… seria preparazione, corredata da rimarchevole fantasia.”
“… lavoro meditato, armonioso di buon afflato poetico.”
“… sincero, elegante, sempre aderente al soggettivismo letterario del particolare momento che attraversiamo.”
“Non racconto né romanzo, più che risolverli lascia aperti molti quesiti anche sul piano puramente tecnico linguistico.”
“Una prosa lacerata e sfuggente…”
“Le aperture liriche, più che segnare il passo dell’emozionalità, offrono un ulteriore invito a perdersi nei labirinti della parola scritta…”
“Quasi poesia cruda, percuote e carezza, giovane e antica…”
“Lavoro intenso, vissuto nella profondità della sua composizione, fatta di toni e di immagini…”
“Una voce nuova che chiama ad ascoltarla ed a giudicarla senza inibizioni, come liberamente essa è sviluppata.”
“Troverete un urlo e un soffio di amore, un vuoto, immersi nella forza e nella malinconia di chi comprende che…”

Per Aurora volume quarto

seconda edizione

Racconti
Il furto della foto.
Poesie dei sogni

Per Aurora – volume quarto – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Per Aurora volume quarto

Info: Bruno Mancini
Cell. 3914830355 tutti i giorni dalle 14 alle 23
[email protected]

 

Per Aurora – volume quarto – Capitolo primo

Per Aurora – volume quarto – Capitolo primo

Capitolo primo

PARTE TERZA

I sogni

CAPITOLO PRIMO

Bruno: -«Aurora, nonostante il mio diretto coinvolgimento emotivo, questa che ho voluto raccontare, con il prezioso ausilio dei nostri straordinari compagni, sono persuaso che possa sì essere annoverata tra
“Le belle storie d’amore”,
ma sono anche convinto che essa non appartenga ad una singola persona o ad una sola coppia d’individui, né che sarebbe corretto presentarla come la catarsi del bene sul male.
Ho voluto porgerla alla tua attenzione, e naturalmente alla compiacenza dei tuoi ospiti, sviluppando i miei argomenti nella forma recitativa che è ormai consuetudine dei nostri incontri, affinché tu, Signora, possa decidere se dare o non dare un senso d’eternità all’amore tra il Popolo Napoletano e Diego Armando Maradona.
Tanto grande, così palese ed autentico.
Da un lato un uomo che inventa per se stesso un’identità collettiva, dall’altro, l’atavica civiltà di un popolo baro e ladrone che si lascia sedurre dall’integerrimo difensore della giusta amicizia.
Ne parleremo ancora, dopo, se vorrai, ora mi preme chiarire che l’averti proposto la lettura del mio diario non è stato frutto, come ho già detto durante la presentazione iniziale, di civetteria maschile, piuttosto dell’augurio che dalle sue pagine tu, Donna Guascona, possa essere spinta a valutare benevolmente la mia determinazione a punire. Non certo insita nella indole che mi riconosco.
Eppure, in questa occasione, l‘ho espressa con tanta forza da riuscire a trasferirla finanche nello stesso soggetto da sottoporre al castigo.
La baldanzosa indifferenza, con la quale i delinquenti quotidianamente depredavano (e continuano a depredare) di cose care i loro simili, è stata mortificata dalla lucida voglia di giustizia che avevo attivata con il preciso intento di indurre l’autore del furto a privare, per una volta, anche se stesso della sua unica ricchezza.
Mio nonno diceva che chi mangia cavallo non per questo diventa cavallo.
Ignazio di Frigeria e d’Alessandro aveva sottratto, durante tutta la vita, valori ben più preziosi dei semplici altrui oggetti.
Non aveva lesinato d’impossessarsi, subdolamente, finanche di sentimenti e d’idee non di sua pertinenza, pur quando questi fossero stati gelosamente custoditi dai legittimi detentori.
Mai un rimorso.
Mai un pentimento.
Nello scontro con il popolo del Pibe, detto in termini calcistici, imbambolato da finte e contro finte, pallonetti e pallonate, stop a seguire e passaggi smarcanti, genialità irraggiungibili, lui, il ladro senza coscienza, lui che tu hai già conosciuto in passato come mio fratello gemello dato in adozione dalla nascita, Ignazio di Frigeria e D’Alessandro, è finito per diventare, inconsapevolmente, un bene altrui.
I nonni non sempre hanno avuto ragione.
Aurora: -«Le assunzioni di responsabilità (tu hai affermato di averlo consapevolmente indotto al suicidio), quasi mai corrispondono a calcoli ignobili o disdicevoli.
Gli affetti perduti per sempre (Ignazio di Frigeria e d’Alessandro, nel bene e nel male, pur se vissuto in altra famiglia e differente contesto sociale, era comunque tuo fratello gemello) quasi mai si lasciano obnubilare oscurati da altrui ideali.
Perché hai telefonato ignorando chi fosse il tuo interlocutore?
Perché l’hai fatto pur non essendo certo che la persona alla quale ti rivolgevi avesse una personale responsabilità nel furto?
Come hai fatto a valutare la vita di uno sconosciuto meritevole di così immensa punizione?»
Bruno: -«Sai bene che il mio mestiere non è mentire.
Ed io so altrettanto bene che non sarei in grado di provarci neppure con uno sprovveduto.
È vero, la mia ricostruzione è stata incompleta ed il mio comportamento finale è, di conseguenza, passibile di giuste critiche.
Non mentire e non voler ingannare, non presuppongono l’obbligo confessionale della integrare illustrazione degli eventi e di un eventuale susseguente pentimento.
La ragione della mia apparente superficialità è spiegabile dalla precisa e decisa volontà, che non mi ha consentito deroghe, di stralciare dalle pagine del mio diario unicamente i fatti.
Con il loro carico di certezze e riferimenti oggettivi.
I sogni non lo sono.
I sogni sono forse una proiezione di antecedenti malesseri inespressi?
Oppure future aspettative non palesabili?
Visioni?
Chimere?
Lusinghe?
Banali effetti fisici?
Per me i sogni sono segreti.
Per me i sogni sono i segreti del mio cervello.
Per me i sogni sono i segreti della mia anima.
Nessuno ha il diritto, in nome della verità, di rivelare un altrui segreto.
Nessuno ha il diritto di tradire la propria anima o il proprio cervello.
Venerdì, la sera in cui ho ricevuto da [email protected] il messaggio con il numero telefonico da chiamare, è vero, non mi sono neppure posto la domanda di verificare chi fosse il titolare dell’utenza.
Per una precisa ragione.
Neppure durante tutta la successiva giornata ho cercato di sapere a chi esso appartenesse.
Per una precisa ragione.
Ed ancora, ho fatto squillare “quel” numero di telefono, la notte del 14 Agosto alle ore 23.54 senza neppure immaginare l’identità della persona alla quale mi rivolgevo con tanta sicumera.
Per una precisa ragione.
Per una ragione che non giustifica nulla, nel bene e nel male. Per un sogno.»
Aurora: -«Se io non conoscessi la dignità dei tuoi ideali, dubiterei fortemente di trovarmi di fronte ad una verità.
Sarei indotta a credere che le tue argomentazioni siano tentativi di aggiustamenti per comportamenti imprudenti se non addirittura colpevolmente semplicistici.
Se… »
Petrus: -«Signora, mi permetto di interrompere il vostro colloquio, poiché sono depositario di una confidenza che potrebbe risolvere i vostri dubbi.»
Aurora: -«Tu?»
Petrus: -«Io.»
Aurora: -«Ebbene parla.»
Petrus: -«Se potessi divagare maggiormente, mi piacerebbe raccontare l’origine della stima enorme che nutro per una persona (nonostante ella sia completamente astemia!)… »
Aurora: -«Al solito Petrus, bevi una grappa e limitati all’essenziale.
Saresti capace di narrare il diluvio universale o tutta la fuga dall’Egitto.
Essenziale, solo l’essenziale.»
Petrus: -«Grazie per la grappa, meglio doppia.
Conosco la Cristina del messaggio partito dalla casella [email protected].
Detto semplicemente, ella è la nonna del nostro amico.
Giochiamo spesso insieme a dama, e pochi giorni fa mi ha tenuto impegnato un intero pomeriggio per parlarmi del suo amato nipote.»
Aurora: -«Tutto qui?
Quale è la confidenza chiarificatrice?»
Petrus: -«Signora, sapete bene che le parole non scorrono senza grappa!
Hanno bisogno di liquidi spiritosi per evaporare!
Ah! Ah! Ah!»
Aurora: -«Purché ti sbrighi, bevi quello che vuoi.» Petrus: -«Sarò velocissimo.

Cristina mi ha riferito di due sogni, e del dialogo completo con le frasi precise che -ha detto- si sono scambiati lei ed il nostro amico.
Per me l’incontro con Cristina non è stato un sogno, quindi non è un segreto.
Lei non mi ha chiesto di non parlarne, quindi non espongo un segreto.
Cristina è una persona aperta, schietta, sincera.
Non ha segreti.
Ella in nessun modo mi ha chiesto, o fatto intendere, di non divulgare il contenuto della nostra conversazione.
Le sue parole sono acqua cristallina.
Beve solo quella!
Ah! Ah! Ah!»
Aurora: -«Petrus, ora basta.
Ridere ti fa male.
Ti asciuga la gola!
Ah! Ah! Ah!
Saresti in grado di ricostruire i due incontri?
Ripetere puntualmente e dettagliatamente le frasi e le scene?
Sì o no?»
Petrus: -«Nessun problema.
Anzi no, un problema: mi occorre almeno un’ora.
Nessun problema.
Anzi no, due problemi: ho bisogno di due persone che leggano la trascrizione del colloquio.
Un uomo (per la parte del nostro amico) ed una donna (per impersonare la nonna Cristina).
Nessun problema.
Anzi no, tre problemi: mi servirà una terza persona per illustrare tutto ciò che non sarà dialogo.
Nessun problema… »
Aurora: -«Hai a disposizione Edith, Edoardo e Tom, due ore, una bottiglia di grappa alla ruta, e quanta birra riesci a bere.
Sbrigati, nessun problema… »
Bruno: -«Noi intanto potremmo andare ad ascoltare un po’ di buona musica napoletana, suonata al pianoforte dal mio amico col fiore di ginestra (ginestra fiore amato dalla mia donna) all’occhiello del bavero?»
Aurora: -«D’accordo. Lo sai che c’è anche la donna dalle mani ambrate… »

Il primo sogno

Petrus: -«Questa che ascolterete sarà la fedele ricostruzione del primo sogno.
Era la notte tra il venerdì 13 ed il sabato 14 Agosto.
Dalle ore 4.35 alle ore 4.38.
Edoardo descriverà la scena vista dal nostro amico. Edith raffigurerà la nonna Cristina.
Ho operato al meglio per non omettere alcun particolare.
Una precisazione: nella bozza, alla fine, ho indicato con i puntini di sospensione l’interruzione, definitiva, della conversazione con quella frase incompleta.
Posso bere un Don Alfonso rosso corretto con poche gocce di Bitter? Grazie.»
Edoardo: -«Nel giardino della mia infanzia, tra la straduzza foderata da muri di cinta composti da lastroni lavici grigio-argento e la pineta dalle ombre piene di cicalii e voli di passeri, seduta su una panca di pietra levigata dall’uso e dal tempo, la sagoma era inconfondibile.
Il grosso tupè di lunghissimi capelli né tinti né bianchi, ma di un candore naturale per nulla incupito dagli anni, finiva legato da una antica pettinessa di tartaruga con decori brillanti.
Il busto eretto di chi si mostri in posa pittorica, le spalle dritte nella morbida femminilità di un’altra epoca, la voce calma, le parole semplici, i gesti misurati, mia nonna Cristina non ruotò mai la testa, non girò mai il viso… »
Edith: -«Piccirì, per non lasciar dubbi sulla vera essenza della mia presenza e sulla origine della mia richiesta, e non consentire che tu le confonda con tue immaginazioni o le possa erroneamente valutare alla stregua di tue chimere, come prova della superiore volontà che mi ha eletto tua protettrice, ti predico, per domani, l’incontro con un uomo (per la precisione egli sarà il secondo della giornata), subito dietro l’angolo del fotografo.
Egli, sarà un giovanotto dal pantalone rosso a mezza gamba, ti chiederà una sigaretta.
Tu gliela offrirai titubante e lui ti ringrazierà dicendo “Forza Diego”.
Quando poco dopo udirai lo scampanare delle dodici dalla chiesa di San Petrus, una bimba dagli occhi azzurri e dai capelli d’oro, davanti alla fontana della Mandra, ti regalerà un fiore color del cielo.
Più tardi, il tappo della birra che bevi di solito a colazione porterà stampigliato, sul fondo, il simbolo della vincita al concorso “Stappate e-state con le bollicine”, ed allora ti collegherai ad un qualsiasi sito di scommesse on-line e punterai, vincendo, un solo colpo di cento euro alla roulette (non di più, né di meno), sul numero 33 (successivamente devolverai l’importo in beneficenza
alla “Associazione Recupero Sassofoni Orsi”).
Non sempre i sogni sono solitudini romanzate, a volte, ed il nostro caso attuale, in essi orbitano punti di contatto tra dimensioni altrimenti impermeabili.
Se avrai le previste conferme, tu saprai per certo da quale volontà universale ti viene l’ordine, bada bene dico l’ordine, di telefonare al cellulare che ti ho dato nell’ultimo messaggio.
È Lui l’infame.
Fallo, poi, immediatamente dopo, chiudi gli occhi e presto, all’alba successiva…»

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Dedica

Il furto della foto

PARTE PRIMA

Agosto

PARTE SECONDA

Primo giorno

Secondo giorno

Terzo giorno

Quarto giorno

Quinto giorno

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Poesie dei sogni

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Bruno Mancini
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Creato: 28 ago 2022
Modificato: 29 ago 2022
Libro, 89 Pagine
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Informazioni sul copyright
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Titolo Il furto della foto di Maradona
Sottotitolo Per Aurora volume quarto
Collaboratori Bruno Mancini
ISBN 978-1-4710-7278-9
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Seconda edizione
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Titolare del copyright Bruno Mancini
Anno del copyright 2022

Descrizione
Fatti e misfatti realmente accaduti, ma un po’ romanzati
Note sui collaboratori (1454 / 2500)
Per Bruno Mancini: brevi commenti amichevoli.
“Percorso di memoria o ricerca di spazi temporali virtuali?”
“Il continuo intersecarsi di livelli di identità con ipotesi e incarnazioni simboliche…”
“…sembrano accarezzare un sogno lontano, una speranza che non sarà mai certezza, un miraggio di felicità che si perde oltre l’orizzonte illusorio di fragili esistenze.”
“…a volte lirismo crepuscolare, intriso di soffusa malinconia, di struggente tristezza.”
“Opera interessante per i contenuti e le tematiche affrontate, nonché per i valori estetici…”
“… seria preparazione, corredata da rimarchevole fantasia.”
“… lavoro meditato, armonioso di buon afflato poetico.”
“… sincero, elegante, sempre aderente al soggettivismo letterario del particolare momento che attraversiamo.”
“Non racconto né romanzo, più che risolverli lascia aperti molti quesiti anche sul piano puramente tecnico linguistico.”
“Una prosa lacerata e sfuggente…”
“Le aperture liriche, più che segnare il passo dell’emozionalità, offrono un ulteriore invito a perdersi nei labirinti della parola scritta…”
“Quasi poesia cruda, percuote e carezza, giovane e antica…”
“Lavoro intenso, vissuto nella profondità della sua composizione, fatta di toni e di immagini…”
“Una voce nuova che chiama ad ascoltarla ed a giudicarla senza inibizioni, come liberamente essa è sviluppata.”
“Troverete un urlo e un soffio di amore, un vuoto, immersi nella forza e nella malinconia di chi comprende che…”

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