Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO QUINTO

Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO QUINTO

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Per Aurora – volume quinto – La menopausa di mia sorella – CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO 5

Il totano:
-«Il nome mio tutti lo sanno: “Ignazio”.
Ignazio di Frigeria e d’Alessandro.
Ignazio di Frigeria e d’Alessandro con cuore di poeta.
Mi hanno sprofondato in questo abisso per aver mancato di rispetto ad una deità artificiale soprannominata El Tibe o El Cibe o qualcosa di simile.
Avevo cantato i pastori dell’Ellade in guerra, i fieri naviganti fuggiti dalle troiane mura, l’inferno e il paradiso (il purgatorio mi venne meno bene), Lucia la santarella, il cinque maggio, il piccolo Lord, Cappuccetto rosso e Biancaneve.
Tutto bene.
Applausi, complimenti, auguri, riconoscimenti, recensioni, premi ecc. ecc.
Fino a quando… se ci penso mi ficco il terzo tentacolo da destra nel…
Fino a “Il furto della foto”.
Chi poteva pensare che sarei diventato una specie di mignotta solo per aver deriso in quel racconto un tappetto umano in brache bianche e maglietta azzurra!
Infamie e vituperi, offese e minacce, e tutti i contatti professionali cassati, distrutti, annullati.
Amici, spariti.
Conoscenti, neanche più un saluto.
La condanna universale.
Nessuna gratitudine sconfigge mai il danno di un’ultima minima offesa.
Il mio apporto alla gioia, non effimera, per una emozione continuamente dettata finanche a distanza di secoli attraverso solo parole (a volte tradotte in un altro idioma), e poi i casti baci che ho ricevuto dalla cultura, e poi l’essere o l’essere stato pensieri, sentimenti, amori per tutti e di nessuno, cioè tutta la linfa di me poeta, io poeta, travagliato pazzo visionario maledetto stramaledetto stramaledettissimo poeta, tutto ciò non ha retto lo scontro neppure con un bonario scherno verso la fotografia di un Pulcinella in mutande soprannominato El Sibe o El Bibe o qualcosa di simile.
Detto in un plurale maiestatis che a me si conviene, parafrasando un poeta di terra, potrei dire che per noi scrittori non sempre il tempo la beltà conserva.
Tanti anni sono trascorsi da quando gli opercoli dei miei nuovi tentacoli a mala pena raggiungevano il diametro di una capocchia di spillo.
Giocherellavo ad inserirvi prima un granello di sabbia, poi, con il trascorrere di nuove lune e nuovi soli, col tempo, una briciola della conchiglia che avevo mangiato a colazione, ed oggi, impegnandomi riesco a riempirli con bestioni della tua taglia.
E che dire della capacità di trazione di questi super tentacoli che io chiamo sagole viventi!
Altro che idee, queste nerborute propaggini sì hanno valore!
È nella forza il valore dell’essere: non esiste l’anima.
Se anche così non fosse, l’anima non basterebbe comunque, e certo non sarebbe in alcun modo determinante nello stupido inconcludente processo di evoluzione che condiziona, con una spirale infinita, le ambizioni di tutta la città umana.
Come i sentimenti, le ideologie, le filosofie, gli amori astratti.
Tocca, tocca, tutta una corda vigorosa, come una liana.
Mi hanno parlato delle liane sugli alberi, me ne hanno raccontate di storie.
Vi si appendevano per la coda, come la tua, animali considerati progenitori degli umani (i quali sono gli animali per eccellenza, le vere bestie).
Tocca palpeggia.
Se vuoi azzanna.
C’era una barca, l’estate scorsa, una barca lunga tre ciuffi di posidonie.
Ne ho bloccato l’ancora con un solo tentacolo e l’elica, quell’aggeggio che gira rumoroso sotto il culo della poppa, ruotava e strideva, ma il natante lungo un’aiuola di posidonie non si spostava di un’onda.
Proprio come sto facendo con questo umano rompicoglioni.
Vedi, ho intrecciato un cirro con la sagola del pallone boa.
Di solito la corda non è tanto vicina al pescatore.
Non è a portata di tentacolo.
Questo è un sistema diverso.
Mah!
Nessuna cima di tutte quelle che ho incontrato nei miei innumerevoli confronti con gli umani era allestita con questo sistema.
Guarda, guarda, c’è un piombo che la spinge nel basso agevolando involontariamente la mia presa.
Nella composizione classica noi non riusciamo ad agganciarla perché è stesa alle spalle del sub, verso l’alto in direzione delle superficie del mare.
Sì, ora che ci penso, una volta… sì una volta ho notato un altro umano utilizzare questo sistema con il piombo a scorrere sulla corda… ma lui fu fortunato… non mi vide… o se mi vide… fuggì a gambe levate.
Forse è stato lui a consigliare di costruire questa stronzata.
Guarda, guarda come questo qui sbatte piedi e braccia.
Sbatte piedi e braccia, sbatte ma non si sposta di un’acciuga.
Scommetto che questo sub sta ricordando quando la sorella, a quaranta tempi dalla nascita, entrò in menopausa, e la rivide gioiosa come chi s’’immetta nell’androne della stazione ferroviaria dalla quale inizierà il viaggio più suggestivo di tutta la vita: per lei il viaggio verso la sessualità libera e disinibita.
Lei non aveva capito, lui non gliene aveva mai parlato, ed io sciupo il mio tempo prezioso di poeta assoluto nell’insulso tentativo di fare intendere a te, lercia pantegana, indiscusso simbolo di libera cortigianeria, che le beltà dei giorni in cui ciascuno di noi fummo per la prima ed unica volta innamorati, cioè felici, quasi mai si accrescono insieme al diametro dei nostri muscoli od alla forza dei tentacoli che sviluppiamo.
Quasi sempre il vero danno irrimediabile scaturisce dal non aver avuto la preveggenza di conservarle, quelle irripetibili emozioni, nella teca dell’ottimismo, affinché, in seguito, le si possano aprire e riaprire, e godere o rigodere, e amare e riamare, ogni volta che inutili silenzi non si materializzino per aggiungere schizzi scuri al mare profondo di sopraggiunte insidiose solitudini.
Purtroppo, le beltà dei giorni in cui ciascuno di noi fummo per la prima ed unica volta innamorati, cioè felici, con il passare del tempo, considerate ormai inutili, come il mare profondo, finiscono irrimediabilmente rigettate nel mare profondo del superfluo.
Ed allora, io dico beata te, cara pantegana!
Beata te, malcelato incubo notturno per adolescenziali peregrinazioni nei bassifondi innominabili d’invereconde sensazioni, beata te, finché continui a tacere, mentre io mi affatico a nutrirti con le distillate essenze dei miei tormenti. Beata te che poco sai, poco pensi, e poco sei.
Beata te zoccola puttana!
Evviva.
Ed ora basta convenevoli, fatti toccare il culo e baciami il cervello.»

Languida menopausa
del mio furente
Ingarbugliato orgoglio,
inflaccida frange pendule
sconnesse
di una tardiva certezza.
Dal cavallo alato di Bellorofonte
spodesti il tardo
maculato arrivo,
senza condanna
con dolce eutanasia.
Assegno la coda di rospo,
ricotta pregna di canditi,
al tonfo dell’io bambino,
un botto, spiaccicato sulla torta.

Pegaso.
Si fa derivare il suo nome P h g h, ossia sorgente, perché era nato alle fonti dell’Oceano, cioè all’estremo Occidente, dove Perseo aveva ucciso la Gorgonie Medusa.
Altre versioni lo fanno nascere dallo stesso collo reciso della Medusa, oppure dalla Terra, fecondata dal sangue del mostro. Compare in numerose leggende.
Perseo lo cavalcava quando andò a liberare Andromeda dallo scoglio su cui era stata esposta in sacrificio ad un mostro marino.
In seguito fu trovato da Bellorofonte, l’eroe nazionale di Corinto, che lo domò e con lui partecipò a gloriose imprese.
Questi era figlio di Poseidone e di una figlia del re di Megera, sul cui nome le versioni sono diverse.
Avendo ucciso accidentalmente un uomo, dovette lasciare la sua città e andare dal re Preto perché lo purificasse.
La moglie di questi si innamorò di lui e, essendo stata rifiutata, raccontò al marito di essere stata insidiata.
Re Preto, non volendo vendicarsi personalmente, perché non era permesso uccidere il proprio ospite lo mandò dal suocero Iobate con un messaggio, nel quale gli si chiedeva di uccidere il latore della missiva.
Letta la lettera, Iobate chiese a Bellorofonte di uccidere la Chimera, un mostro metà leone, metà drago, che sputava fiamme, convinto che ne sarebbe uscito sconfitto.
Ma Bellorofonte montò il cavallo alato Pegaso, piombò dall’alto sulla Chimera e la uccise in un sol colpo.
Iobate gli affidò allora una successione di altre imprese impossibili, dalle quali l’eroe uscì vittorioso. Iobate si convinse quindi dell’innocenza dell’eroe e ne ammirò le qualità al punto da dargli in moglie la propria figlia. Inorgoglito, Bellorofonte volle salire all’Olimpo sul suo cavallo alato, ma fu precipitato sulla terra da Zeus, come castigo del suo peccato d’orgoglio.

Per Aurora – volume quinto – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Dedica

La menopausa di mia sorella

Conversazione fra un totano ed una pantegana

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così fu

PARTE 1

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SETTIMO

CAPITOLO OTTAVO

CAPITOLO NONO

CAPITOLO DECIMO

CAPITOLO UNDICESIMO

CAPITOLO DODICESIMO

CAPITOLO TREDICESIMO

PARTE 2

CAPITOLO 1

CAPITOLO 2

Poesia sporca

Poesia sporca

Per Aurora – volume quinto – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

ACQUISTA COM www.lulu.com

Per Aurora – volume quinto – Vetrina LULU

Per Aurora volume quinto di Bruno Mancini

seconda edizione

Version 5 | ID r99qmg

ISBN 9781471068423

Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Versione 4 |  ID r99qmg
Creato: 31 ago 2022
Modificato: 31 ago 2022
Libro, 100 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm)
Standard Bianco e nero, 60# Bianco
Libro a copertina morbida
Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00

Titolo Per Aurora volume quinto
Sottotitolo Alla ricerca di belle storie d’amore
Collaboratori Bruno Mancini
ISBN 9781471068423
Marchio editoriale Lulu.com
Edizione Nuova edizione
Seconda edizione
Licenza Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
Titolare del copyright Bruno Mancini
Anno del copyright 2022

E allora la bacia con violenza. Sulla bocca trattenendole la testa – come una bambola di pezza -, sul collo comprimendole le guance – come il morso per una cavalla-, sul seno acerbo – strappandole stoffe e bottoni.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo”.
E allora la getta per terra – come un sacco di roba vecchia -, le blocca le gambe – come un lottatore di judo -, le lega i polsi- come uno stupratore -.
“Lasciami bastardo. Vigliacco bastardo, Non farlo”.

Per Aurora volume quinto

seconda edizione

Racconti

La menopausa di mia sorella

Così fu

Info: Bruno Mancini

Cell. 3914830355 tutti i giorni dalle 14 alle 23
[email protected]